Pubblichiamo la seconda parte delle Colonne scellerate, di Maria Attanasio.
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II
Il processo dei veleni
… se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa ma una colpa.
A. MANZONI, Storia della Colonna Infame
La sciagurata credenza
1
«A vedere questa ferma persuasione, questa pazza paura d’un attentato chimerico, non si può fare a meno di non rammentarsi di ciò che accadde di simile, in varie parti d’Europa, pochi anni sono, nel tempo del colera», scriveva nel 1840 Alessandro Manzoni nella Storia della Colonna Infame, aggiungendo ottimisticamente – che le persone punto punto istruite non erano cadute in questa sciagurata credenza, anzi avevano fatto di tutto per combatterla. Tranne qualche eccezione, precisa.
La Sicilia fu tutta un’eccezione.
È stata la monarchia sabauda, subito dopo l’unità nazionale, a creare l’idea di un’omogenea geografia economica e sociale del Sud, dal Molise alla Sicilia. Nella prima metà dell’Ottocento la parola napoletano nell’isola era sinonimo di un odioso accentramento politico, e di un monopolio economico che privilegiando le manifatture della Campania, danneggiava tutte le classi sociali.
E vessazioni poliziesche, dazi, tasse – tra esse quella insopportabile sul macinato che colpiva i più poveri – a cui dall’inizio del 1835 si aggiunse il blocco di commerci e transazioni a causa di cordoni sanitari terrestri e marittimi, istituiti per evitare il propagarsi del contagio.
In Sicilia il colera asiatico diventò borbonico. Per sciagurata credenza, ma anche per politica malizia di un’élite di liberali ideologicamente variegata.
Costituzionalisti, sparuti simpatizzanti della ancora neonata e repubblicana Giovane Italia, e soprattutto indipendentisti, trovarono nel colera-veleno un’unitaria e populistica parola d’ordine: sua maestà il re delle Due Sicilie il mandante, che attraverso occulti diffusori avvelenava cibi, acque, aria.
Da qui la mobilitazione popolare per smascherare i tossici, come venivano comunemente chiamati i presunti avvelenatori, individuati soprattutto nei rappresentanti istituzionali del potere borbonico e negli stranieri. Allora come adesso sospettati di ogni reità.
Allo scoppio dell’epidemia, nel giugno del 1837, i liberali siracusani si diedero molto da fare, accantonando la loro rivalità che tra i due maggiori esponenti era di lunga durata; risaliva al 1820, quando l’allora indipendentista barone Emanuele Pancali – minacciato di morte dai costituzionalisti filoborbonici – fuggì a Palermo, dove sembra essersi avvicinato all’ala più democratica. Un’adesione piuttosto blanda, e senza alcun rischio per l’establishment borbonico se – richiamato a Siracusa – nonostante le sue simpatie politiche all’inizio di quell’anno fu nominato patrizio, cioè sindaco della città.
Dovendo fronteggiare l’emergenza colera – e gestirla nel modo più utile alla causa liberale – Pancali trovò il più attivo sostenitore proprio in colui che aveva caldeggiato la sua condanna a morte, l’avvocato Mario Adorno, costituzionalista forse non più filo-borbonico; non si sa molto del suo orientamento politico, dopo i fatti del 1820 essendo rimasto lontano dalla politica attiva.
Sul colera-veleno – si sa per certo – l’avvocato non aveva il benché minimo dubbio. Impegnato con un gran seguito di popolo a smascherare l’infernale setta, girava per strade, caffè, tribunali, tuonando contro veleni e avvelenatori. Punta avanzata del suo seguito tre preti, che con acquasanta, crocifissi, e Viva Santa Lucia, dal pulpito e nelle piazze incitavano – indicandoli – alla cattura dei tossici.
Tra i più sospettati i due artisti stranieri arrivati in citta all’inizio di giugno. Tanti giuravano di aver visto razzi infetti partire di notte dalla terrazza del Cosmorama, che insieme al suo aiutante trafficava di continuo con misteriose polveri; veleni che durante gli spettacoli propinava ai clienti mescolandoli a prese di tabacco. E conosceva anche il segreto del contra, l’antidoto: la moglie lo aveva infatti fornito al suo amante, un giovane di Augusta a cui era legatissima.
Man mano che il colera si diffondeva, aumentava il fervore missionario del causidico, tanto da spingere l’Intendente a decretarne il 16 luglio l’arresto; tempestivamente avvisato riparò in campagna, mentre i suoi seguaci – soprattutto il più attivo tra loro, il prete Rispoli – continuavano a eccitare la folla. Che la mattina del 18 luglio ruppe gli indugi, dirigendosi verso la casa dello straniero.
2
Joseph Schwentzer non aveva mai sospettato che quelle voci potessero riguardarlo, fino a quando l’Intendente l’aveva convocato, consigliandogli di andare al più presto via da Siracusa; si diceva in giro che fosse un avvelenatore pagato dal governo; che non si fermava davanti a niente, avendo fatto morire con una tazza di brodo al veleno anche il suo migliore amico, il pittore Giuseppe Politi. Si temevano disordini; ma c’era di mezzo la politica e lui non poteva calcare la mano.
«Sciocchezze… ignoranza… chi può volermi male! Il popolo mi ama» aveva risposto all’Intendente, ma l’accusa di aver procurato la morte del suo amico era una trafittura alle viscere che non smetteva di sanguinare.
Aveva chiuso il cosmorama, deciso a lasciare subito la città diventata del tutto insicura. E sempre più minacciosi i capannelli al suo passare.
Per tre giorni si era messo in cerca di una soluzione, ma nessuna possibilità di lasciare Siracusa con i blocchi di terra e di mare.
Quella mattina un marinaio gli aveva prospettato l’arrivo, previsto per due giorni dopo, di una nave di contrabbando che si fermava al largo. Li avrebbe portati lui stesso con la barca: sapeva come eludere il blocco.
Si rilassò. Finalmente quella notte poteva chiudere gli occhi.
Che passò invece in una sorta di allarmato dormiveglia: un pestìo di passi, insolito a quell’ora, si fermava davanti la sua porta. Si allontanava. Tornava.
Anche Tommaso, che dormiva nel basso dove tenevano le attrezzature di lavoro, si era svegliato dandogli voce. Aprirono: un buio pesto. Chiunque poteva acquattarsi oltre il cerchio vacillante della lanterna.
Forse un cane, si rassicurò riassopendosi.
Un minuto, un’ora. Non sapeva. Una grandine di pietre contro la porta. Che divenne deflagrante uragano nella stanza.
«Furasteru! Ntussicaturi!».
3
Circondato dalla folla tumultuante che voleva la sua piena confessione, Joseph Schwentzer rispose che solo davanti alle autorità avrebbe rivelato tutto. Una risposta che spiazzò i capi.
Temendo che se lo avessero ucciso non avrebbero mai conosciuto veleni e mandanti, mandarono a chiamare il sindaco che dopo qualche minuto arrivò.
«Giustizia sarà fatta» promise solennemente, mentre lo trascinava in carcere.
Gridando al miracolo per la scoperta dell’autore del veneficio, la folla si diresse verso il piano del Duomo, insieme agli oggetti requisiti portando via anche Tommaso e Anna Maria con la bambina in braccio; in mezzo a quell’enorme trambusto una mano pietosa la fece deviare verso un basso del palazzo comunale. E la chiuse dentro.
Il grido Viva Santa Lucia, accompagnato da uno stordente suono di campane, risuonò più volte quella mattina, mentre legati ai pilieri – così erano chiamate le colonne tronche di granito egizio attorno alla cancellata del duomo – venivano uccisi Tommaso, due lentinesi e un montanaro di Buccheri, casualmente capitati a Siracusa; a cui a tarda sera si aggiunse il linciaggio dell’odiatissimo commissario di polizia Vico, e il giorno dopo quelli dell’intendente Vaccaro e dell’ispettore Li Greci insieme al figlio.
4
Alla notizia dei primi linciaggi il sindaco convocò i capi del popolo; fu costituita una Commissione di sessanta persone i cui nomi furono scelti insieme alla folla, che assisteva partecipe assentendo o dissentendo. Tra essi quello dell’avvocato Adorno; accolto da un’ovazione quando verso le nove entrò nel palazzo comunale.
In nome del bene della patria, i due nemici storici si strinsero la mano, mettendosi subito al lavoro per rispondere all’attesa popolare che si concentrava in modo spasmodico sul processo al Cosmorama.
Come uomo di legge fu chiamato il giudice circondariale Francesco Mistretta, anche lui un ex carbonaro del 1820, pentito e ben inserito nell’apparato istituzionale borbonico; furbissimo, riusciva sempre a trovare un cavillo, una salvifica riserva, per decidere in un senso o nell’opposto nel caso le cose andassero diversamente dal previsto. Accettò l’incarico di celebrare quel processo organizzato dai liberali che lo metteva al riparo dal furore popolare; chiese però di essere affiancato da un comitato ristretto, i cui membri dovevano presenziare agli interrogatori, alle verifiche pubbliche degli oggetti sospetti, e firmare insieme a lui i relativi verbali. Una condivisione di responsabilità che attenuava molto la sua, qualsiasi cosa fosse in seguito accaduta.
Presidente del comitato dei quattro, scelti per affiancare il giudice, fu in qualità di sindaco il patrizio Pancali, ma la presenza determinante nell’iter processuale – che durò 18 giorni a partire dal 20 luglio – sarà quella di Mario Adorno, tribuno del popolo, come è stato definito in una lapide di qualche anno fa in sua memoria.
E lo fu. Rappresentandone credenze, istanze, volontà.
Giovedì 20 luglio ore 13, carceri centrali
Mi chiamo Giuseppe Schwentzer, figlio del defunto Giorgio, di anni 36, nato in Tolone, di professione cosmorama.
1
Che Joseph – nei documenti processuali italianizzato in Giuseppe – fosse un immaginifico artista, non c’è alcun dubbio. A confermarlo il primo interrogatorio, a cui viene sottoposto come «imputato di avere sparso delle sostanze venefiche a danno della pubblica salute».
A premessa gli viene ricordato che il furore popolare è grande: con la promessa della confessione davanti alle autorità era sfuggito alla folla; se adesso non confessa ci andrà di mezzo la sua famiglia.
E lui confessa.
Dice di essere una spia mandata dal governo francese in diversi paesi, e specificatamente in Sicilia, col segretissimo incarico «di indagare quali fossero le opinioni politiche, quali le inclinazioni, quale lo spirito pubblico; onde in caso di movimento qualunque, che si avrebbe potuto tentare a Palermo, od a Catania, ovvero in Messina», la Francia sarebbe intervenuta, mandando delle navi per occuparle e impossessarsene. Arrivando in Sicilia riferisce per iscritto, a chi di dovere, sulla situazione di diffuso malcontento che ha trovato a Catania e a Messina, e sulla sostanziale tranquillità di Siracusa, dove a metà giugno fa un imprevisto incontro: un tedesco, tale Beinard, conosciuto a Milano durante il colera quale spargitore di veleno. Mostrandogli due boccette l’uomo lo informa di avere già avvelenato Palermo, preparandosi ad andar via per mettere fuoco a Catania e a Messina.
L’incontro lo inorridisce e impaurisce. Prima di andarsene a seminare morte altrove, l’uomo gli dice infatti che se lo avesse denunziato avrebbe ribaltato su di lui la denuncia. Joseph ribadisce però con forza al giudice la sua totale estraneità alla diffusione del veleno: il suo unico torto è di non averlo denunziato.
Condisce infine il tutto con un pizzico di politica, esattamente quello che comitato e giudice volevano sentire; alla domanda sui mandanti riporta le parole di Beinard: «Chi mi ha spedito non ha freddo: Napoli si è rallegrato nel sentire che il colèra domina a Palermo».
Una metafora assolutamente singolare per indicare il potere; quando il giudice gli chiede cosa volesse dire l’avvelenatore con questa espressione, risponde: «Egli intendeva dire: chi mi ha spedito non teme; è ben coverto, ed è una potenza grande».
Non sono le ricchezze, l’abbondanza di cibo, il possesso di armi o di palazzi, per Joseph Schwentzer la rappresentazione massima del potere, ma l’assenza di freddo; una metafora che forse ha a che fare col nobile e cadente palazzo della sua infanzia tolonese.
Ed è facile immaginarlo – solitario bambino – in balìa di se stesso e di qualche governante in quelle alte e freddissime stanze.
2
La fantasiosa confessione – con due irrelate narrazioni: l’incarico di spia e l’incontro col diffusore di veleni – inventata da Joseph Schwentzer, diventò certezza di verità.
Ne venne data notizia al popolo, che ne pretese subito il concreto riscontro: il veleno; inutilmente era stato cercato per due giorni nelle pubbliche analisi in piazza Duomo su polveri e quant’altro, requisiti a casa di Schwentzer e dell’intendente borbonico Vaccaro. Con profonda ed eccitata delusione popolare.
Quel veleno perciò si doveva trovare.
Con altre subitanee perquisizioni, si trovò: nitrato d’arsenico, decretarono gli esperti. Ci andò di mezzo un incolpevole cane a cui davanti alla folla esultante fu dato da mangiare.
Varie le ipotesi su chi andò a metterlo nella casa dell’ucciso intendente. «Comunque sia andata la cosa, la scoperta dell’arsenico si salda, per fatale ma non casuale coincidenza, con le confessioni estorte allo Schwentzer nella prima tornata degli interrogatori» scrive Paolo Preto al riguardo in Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna.
Una saldatura, tra interrogatorio e veleno, che consentì all’avvocato Adorno l’elaborazione di un documento – ovviamente letto e approvato dal popolo – dove si annunciava, insieme al ritrovamento dell’arsenico, il colera «non altro essere lo stesso che il risultato unico e solo di polveri e liquidi venefici». Responsabili della congiura il cosmorama Giuseppe Schwentzer, il tedesco Beinard e la polizia borbonica. Da qui la certezza nel più brillante processo.
A partire da questo documento, che diventa un manifesto stampato in migliaia di copie e mandato Ai fratelli siciliani di tutta l’isola, alcuni giorni dopo presero il via i tumulti nell’area orientale, che a Catania ebbero, insieme ai linciaggi, un’esplicita anche se tardiva connotazione politica; alla fine del mese si formerà un governo rivoluzionario con un comitato di salute pubblica, mentre veniva abbattuta la statua di Francesco I, dichiarata decaduta la monarchia borbonica, e rimesse le coccarde gialle della nuovamente proclamata indipendenza della Sicilia.
A Siracusa, da cui tutto si origina, nessun governo rivoluzionario, nessuna esplicita presa di posizione politica, tranne il riferimento nel documento all’arsenico e alla colpevolezza delle autorità di polizia, che «nel calore della scoperta rimasero vittima dello sdegno popolare».
Il manifesto – firmato dal sindaco – indica coprendosi: c’è l’accusa ma non una dichiarata finalità politica; eppure a scriverlo è un abilissimo avvocato che sa usare le parole in modo appropriato per difendere e accusare.
Paura delle conseguenze, in caso di fallimento? O insensata credenza nel colera-veleno, che prevale sulla politica, sul buon senso, su ogni cosa?
Questa sembra l’ipotesi più vicina alla verità.
A prevalere in Adorno è la soddisfazione per avere scoperto la causa del morbo; e, insieme, un profondo senso di responsabilità per la missione di cui si sente investito: salvatore e custode dell’universale salute, non solo dei siciliani ma dell’umanità in generale.
Scoperta la congiura, individuati veleno e avvelenatori, il processo sembrava avviato verso il suo certo esito; restava solo da far luce su legami e complici.
In questo senso si orientò l’istruttoria ponendo al centro dei due successivi interrogatori – uno alla moglie, l’altro al Cosmorama – oggetti «sospetti di veneficio» e materiali cartacei e non, quali «emblemi di morte e di congiura»: indirizzi, lettere di amici, coroncine, pomate, medagliette sacre, bandiere e banderuole; e il più sospetto tra gli oggetti sospetti: un «cocco a forma di mezzo arancio con occhi e bocca da far credere essere un teschio di morto», fatto dal giovane e divertito aiutante Tommaso che lo utilizzava per bere.
Tutto ciò accade in pieno Ottocento, tra uomini che hanno studiato legge, arte, scienze.
Ai fini della ricostruzione del processo, non varrebbe la pena nemmeno di citarli per la loro estrema risibilità, questi due interrogatori; le cui risposte però aprono qualche dettaglio esistenzialmente connotativo dei due sventurati artisti.
Venerdì 21 luglio ore 14, casa comunale
Mi chiamo Anna Maria Lepik, di anni 18, di Antonio, nata nel Tirolo, moglie di don Giuseppe Schwentzer.
Un interrogatorio breve, quello ad Anna Maria Lepik, accusata di complicità col marito; l’unico assente è Adorno, in quelle ore forse impegnato a convincere il riluttante sindaco Pancali a firmare il documento, che senza firma il tipografo si era rifiutato di stampare.
Al contrario del marito lei risponde con grande concretezza alle domande, rivendicando l’innocenza sua e di Joseph. Al giudice che insiste, dicendole che gli oggetti trovati nella loro casa «addimostrano il contrario», risponde sbrigativa: «Ma quali oggetti? Tutto ciò che si è rinvenuto, è dipendente dal mestiere di mio marito, ed io veggendoli potrei ad uno ad uno additarveli».
Ma l’istruttore, tra le carte trovate nel portafoglio del Cosmorama, ha individuato specifiche «espressioni che hanno del mistero, e del sospetto»; soprattutto in una lettera di Ottavio Omodei – un giovane di un’importante famiglia di Augusta – dove «si annunziava una tomba».
Tra vanità e rimpianto Anna Maria rievoca i giorni spensierati di Augusta, spiegando che il riferimento alla tomba riguardava il suo improvvisato ruolo di attrice in una commedia, intitolata La Viva Sepolta; ed era stata così brava in quella parte, pur non essendo del mestiere, da lasciare senza parole gli spettatori.
E l’amicizia col giovane Omodei ricorda, le passeggiate a cavallo insieme a lui, «alcuna volta feci pure qualche divertita a cavallo con Omodei, quindi contraemmo amicizia, ed egli scrivevaci di non dimenticarsi tale amicizia, e le divertite che avevamo fatte!».
ll termine divertite – che il marito nell’interrogatorio del giorno dopo definirà semplicemente passeggiate a cavallo – ritorna due volte nella risposta di questa ragazza che ama recitare, ridere, stare al centro dell’attenzione, compiaciuta del suo successo d’artista e di donna. Di bella donna.
«Una giovanotta a 18 anni, bella come un angelo» dirà di lei Emilio Bufardeci; un’affermazione ripresa poi da Verga nel Mastro don Gesualdo, ma contraddetta da un altro storico siracusano di quegli anni, Emanuele De Benedictis, «non era bella come un angelo, qual la dipinge il Bufardeci: era un corpicino sparuto, di membra delicate: corti e inanellati i capelli: faccia piccola, piccola fronte, naso piccolissimo e schiacciato, bocca larghella, labbra un po’ sporgenti, carnagione bianchissima».
Bianchissima, snella, capelli ricci, naso piccolo, labbra carnose; una bellezza tra innocenza e malizia – quale il timorato archivista la descrive – di un’intensa e inquietante sensualità.
Vitale, un po’ trasgressiva, le sue cavalcate non dovevano passare inosservate a Siracusa; una passione che sembra andare oltre ogni ragionevolezza, cavalcando impavida nella città in preda alla paura del colera; che, sebbene negato come tale dalle autorità, faceva già tante vittime soprattutto nei quartieri abitati da bordonari e marinai, i più poveri tra i poveri.
Anna Maria non pensa alla morte: ha diciott’anni; è la vita a tirarla da ogni parte.
Ma chi la vede passare, che pensa? La invidia, la odia, l’ammira?
Forse vorrebbe umiliarlo, strascinarlo per le strade, quel bellissimo e indifferente angelo della morte.
Con l’interrogatorio notturno del 23 a Joseph Schwentzer – che su lettere e oggetti diede più o meno le stesse risposte della moglie – si concluse la prima fase del processo dei veleni – come è stato definito da uno studioso – di cui il 25 luglio il giudice Mistretta fece un riepilogo scritto al sindaco; l’ultimo documento firmato collegialmente dal comitato dei quattro.
La Commissione cominciò a sfaldarsi. Nonostante il manifesto, la rivoluzione liberale tardava a scoppiare, mentre cominciava a profilarsi la reazione borbonica; anche il barone Pancali riparò in campagna lasciando l’ufficio di sindaco e la città.
A gestire l’ordine pubblico restò solo l’avvocato Adorno, a cui per il suo forte ascendente sul popolo era stato dato l’incarico di organizzare le pattuglie di quartiere.
Sabato 1° agosto, carcere centrale
Nulla io so e nulla ho che dirvi. Fate di me quel che volete.
Nonostante la rivelazione di veleno e avvelenatori, il contagio continuava a infuriare insieme all’eccitazione della folla, concentrata soprattutto contro l’unico tossico con una precisa identità: Joseph Schwentzer, che non aveva pace nemmeno tra le mura dell’angustissima cella.
Ogni giorno un flusso di gente accorreva davanti al carcere: a volte in massa insultando, minacciando; a volte in sparuti gruppi – spesso i parenti di chi veniva colpito dal morbo – implorando il soccorso del contra. E, per tenerli calmi, lui inventava rimedi.
Ma era furioso. Nessuna delle promesse che gli erano state fatte nel primo interrogatorio era stata mantenuta; con quella confessione invece lo avevano fatto passare per colpevole. E tutti lo odiavano. Se avesse potuto parlare direttamente al popolo lo avrebbe convinto della sua innocenza.
E perché no, si disse: con una lettera.
Si accordò con un carceriere, prese la penna e iniziò a scrivere: «Di giorno in giorno va di male in peggio, vi farò conoscere che siamo stati tutti ingannati: adesso mi levo la maschera…». Tre fogli fitti fitti, che si chiudevano con queste parole: «Fuvvi chi volle che io scrivessi e per disperazione presi la penna e scrissi… siamo tutti ingannati… e io sono calunniato».
Quella lettera non arrivò mai al popolo, ma fu consegnata ad Adorno che si ritrovò con una totale smentita di tutta la costruzione processuale; il 1° agosto, insieme a uno dei suoi figli e al giudice Mistretta, si recò in carcere per procedere al terzo interrogatorio del Cosmorama; del comitato dei quattro era rimasto solo lui, anche il cancelliere non era più quello di prima, sostituito da suo figlio Gaetano.
Joseph riconobbe come scritti e firmati di suo pugno i fogli che gli mostrarono, riconfermandone totalmente il contenuto: nel primo interrogatorio la confessione della congiura gli era stata estorta con la minaccia di morte della moglie e della figlia: «Mi dicevano che le autorità non volevano che il popolo imperasse; che mia figlia e mia moglie sarebbero state sacrificate». Gli avevano invece assicurato, se confessava, la salvezza della sua famiglia e la possibilità di lasciare subito Siracusa. Per disperazione perciò l’aveva sottoscritta: il popolo era stato ingannato, e lui ingannato e calunniato.
Un interrogatorio drammatico e concitato, anche per l’impassibile Mistretta, che nel redigere il verbale dimenticò di indicare l’ora.
L’avvocato convocò i suoi fedelissimi: l’impianto accusatorio totalmente rovesciato; e negata la verità del colera-veleno che, al di là di processi e dichiarazioni, era lampante per lui e per il popolo.
Il giorno dopo tre autorevoli cittadini, suoi amici, si recarono in carcere: minacce se non parla; promesse di libertà se riconferma il primo interrogatorio.
Inutilmente: Joseph Schwentzer caparbiamente resiste.
Occorreva trovare subito un’altra strada per convincerlo.
Lunedì 3 agosto, carcere centrale
Gli sembrava di essere prigioniero di una delle storie che lui stesso inventava per i suoi spettatori, tutte sempre a lieto fine; di quella che lui stava vivendo non riusciva a vedere l’esito.
Ma il tormento maggiore era non avere notizie certe di Anna Maria e di Natalie; un giorno gli facevano sapere che erano in salvo, un altro già morte per giustizia di popolo, sentendo come una colpa quel suo essere lì, impotente. Senza poter far nulla.
Studiava il modo di venirne fuori; sempre più fermamente deciso a confermare la sua innocenza, a guadagnare tempo, portando le cose alle lunghe fino all’arrivo della polizia borbonica, di cui ormai tra carcerieri e arrestati apertamente si parlava come di cosa certa. E pensare che lui aveva sempre detestato quell’inetta dinastia!
Era concentrato in questi suoi pensieri quella mattina, quando sentì un rumore di passi e chiavi dietro la cella.
Gridolini… un pianto di neonata… Natalie in braccio ad Anna Maria, lì davanti a lui!
L’abbaglio, l’abbraccio interminabile. E quell’angusta cella del carcere centrale di Siracusa fu la reggia di Versailles, il palazzo del sultano di Costantinopoli.
Adesso la salvezza dipendeva da lui, gli dissero gli amici dell’avvocato: una confessione piena della sua colpevolezza con esatta indicazione di veleni, mandanti, propinatori.
Joseph rispose che era stato imbrogliato una volta e non ci cascava più: voleva un documento scritto, firmato da Mario Adorno e dal sindaco.
La sera gli fu consegnata una dichiarazione con la firma dall’avvocato e il timbro del comune, in cui c’era la formale promessa che se «paleserà in iscritto i veri fatti che riguardano l’infernale cospirazione, sarà tosto messo in libertà, e quindi imbarcato per il continente».
«Scriverò la confessione che vogliono» disse ad Anna Maria.
Disteso sul pagliericcio, la piccolina in mezzo, al buio cercò il suo volto; lo ripassò delicatamente con le dita – la fronte, il naso, le labbra – era imbronciata nel sonno. «Ce la faremo, tra un mese saremo a Costantinopoli» le sussurrò.
«Quella cosa di Omodei» biascicò lei «invidiosi… malelingue…», tornando ad affondare nei suoi sconosciuti sogni.
La nuova dichiarazione di autocolpevolezza, che Joseph Schwentzer fece arrivare ad Adorno, fu ancora più incredibile della prima. Ma a partire da essa il giudice Mistretta ebbe l’asso nella manica per poter saltare senza problemi – all’ormai certo arrivo del maresciallo Del Carretto – dall’altro lato della barricata; a proposito di mandanti e avvelenatori, nel riepilogo che mandò ad Adorno scriveva: «Ora altronde sarebbe follia, e grave delitto appuntare al Governo la propinazione dei veleni; nulla sorge dal processo che possa farlo sospettare; anzi per l’ultima manifestazione del Cosmorama vuolsi che derivi da setta».
Nella nuova versione della confessione a organizzare la congiura non è il governo ma una setta che ad esso si oppone, fomentata da potenze straniere che hanno messo in campo, in ogni città, un’organizzazione di dieci professi e nove iniziati per una diffusione capillare del veleno.
Joseph Schwentzer in tutti gli interrogatori non ha mai coinvolto un innocente, accusando persone uccise o inventandone l’esistenza, come nel caso del ricercatissimo ma introvabile Beinard di cui in questa dichiarazione non c’è più traccia.
Oltre a indicare i nomi dei morti, questa volta indica anche due viventi, che non possono però essere assolutamente raggiunti dall’ira popolare. Uno è quello di Martinelli, un importante tenente colonnello al sicuro nella fortezza di Maniace, dove fin dal 24 tutta la guarnigione si è chiusa, indifferente a quanto avveniva in città ma al riparo dal colera veleno; temutissimo anche dal generale comandante che faceva assaggiare i cibi ai suoi cani prima di mangiarli.
Martinelli peraltro è un amico suo e di sua moglie, alla quale ha fatto omaggio di dolci, profumi… una punta di innocua gelosia, forse, nello scrivere quel nome.
L’altro nome è quello – ma forse gli viene suggerito – del ministro della polizia borbonica, il maresciallo Del Carretto, che due giorni dopo arriverà a Catania ponendo fine alla brevissima esistenza – appena cinque giorni – del velleitario governo rivoluzionario. A Siracusa, temendone l’arrivo, coloro che sono stati coinvolti nei tumulti – e sono tantissimi – scappano dalla città, mentre il contagio raggiunge l’acme.
Un consiglio che viene dato inutilmente anche ad Adorno; fermo nella convinzione che la salute pubblica sia più importante della politica e della salvezza personale, continua insieme a giudice e popolo nelle pubbliche verifiche: il processo deve andare avanti più che mai adesso, con la nuova e fondamentale confessione del Cosmorama.
Una notizia che – come le altre irresponsabilmente comunicata al popolo – ne aumenta la rabbia, ne acuisce la disperazione, il senso d’impotenza: figli, parenti, amici muoiono, uno dopo l’altro; e in giro circolano indisturbati iniziati e professi…
Snidarli. Annientarli.
Basta un gesto, una voce che indica, e non c’è scampo.
Mercoledì 5 agosto, piazza Duomo
Dopo avere rumoreggiato in piazza per tutto il giorno, la sera, una voce divenne la voce di tutti, Al carcere.
Spalancate le celle i carcerati furono portati a piazza Duomo, e legati ai pilieri.
L’odio di tanti occhi, il furore di tante mani. Per ore. Tra un clamore di campane a stormo, e la folla osannante a Santa Lucia.
La clemenza del buio, infine.
Sul corpo sfregiato di Joseph. Su quello di Anna Maria, legata a un cavallo e trascinata per quelle strade che tante volte aveva attraversato nella gloria della sua giovinezza.
Qualcuno durante il tragitto verso il Duomo aveva portato in salvo la bambina, strappandola dalle sue braccia e affidandola a una balia, da cui un anno dopo il nonno, monsieur Antonio Lepik, verrà da Leonforte a riprenderla.
Quel giorno furono uccise quattordici persone, a cui l’indomani un’altra se ne aggiunse. Sarà l’ultima.
La mattina seguente arrivò nel porto una fregata borbonica piena di artiglieri e cannoni per preparare il terreno all’efficiente e sbrigativa operatività del ministro di polizia del Regno delle Due Sicilie, il maresciallo marchese Francesco Saverio del Carretto, alter ego del re con potere di vita e di morte sui sudditi.
Martedì 18 agosto, piazza Duomo, ore 18
La provvidenziale morte di Joseph Schwentzer fece tirare un grosso sospiro di sollievo a molti, coinvolti in arresti, interrogatori, linciaggi, che per maggiore sicurezza si eclissarono.
In una solitudine da tragico eroe shakespeariano, abbandonato anche dal popolo, che rifiutò la sua indicazione di procedere in ulteriori resistenze e uccisioni – ricorda nel suo memoriale Pancali – Mario Adorno restò impavido a fronteggiare la reazione borbonica; durante il processo a cui sarà sottoposto ribadirà infatti la sua inamovibile credenza nell’infernale flagello, e di non avere mai attaccato il governo ma lottato per la pubblica salute.
All’arrivo di del Carretto a Siracusa fu subito arrestato come uno de’ principali promotori dei tumulti, dei linciaggi, e il mandante dell’assassinio di Vaccaro; insieme a lui i figli, tre preti suoi mandatari, e Concetto Lanza, che aveva dato il colpo fatale all’intendente.
Il giorno dopo – anche loro accusati quali capi della sedizione – furono arrestati il barone Pancali e il giudice Francesco Mistretta; questi giustificò la sua presenza a fianco dei liberali in quanto finalizzata a conservare atti processuali e documenti testimoniali, che in mano ai ribelli sarebbero certamente andati distrutti.
Non solo giustificato, ma pienamente reintegrato nel suo ruolo di giudice, fu nominato uomo di legge nella commissione militare che procedette con giudizi subitanei ai processi. Con un dettagliato parere scritto, allegato alla sentenza, fu lui a sostenere la necessità della condanna a morte di Mario Adorno, del figlio Carmelo, e di Concetto Lanza.
Furono fucilati il 18 agosto, alle ore 18, in piazza Duomo davanti ai pilieri dove erano avvenuti i massacri; le colonne scellerate, come in una informativa al re la sera del suo arrivo Del Carretto li aveva definiti. Altri quattordici condannati in quella stessa piazza gremita di armigeri e popolo seguiranno uguale sorte.
Pancali, durante il processo, giustificò la firma al manifesto con l’impossibilità di sottrarsi al furore popolare; fu condannato all’esilio a Napoli, ma dopo un anno il re – impietosito per il troppo soffrire del barone ne sposterà la sede a poche miglia da Siracusa. Con maggiore consapevolezza politica parteciperà ai moti risorgimentali del 1848 e a quelli successivi, che saranno ben altra cosa per il determinante contributo democratico della Sicilia all’unità nazionale. Spesso però misconosciuto o minimizzato dalla santificazione filosabauda del Risorgimento, che avvenne nel periodo umbertino.
Un’alterazione della verità storica, che non solo a Siracusa ma in tutta l’isola trasformò in istanza risorgimentale la sciagurata credenza alla base di quelle rivolte, e in martiri del libero pensiero i protagonisti, retrivi e accecati dai pregiudizi. Senza alcuna distanza morale, revisione critica, per ciò che di terribile era avvenuto.
Assunti nel pantheon risorgimentale cittadino, a Mario Adorno, e agli altri notabili coinvolti nei tumulti, sono stati dedicati libri, strade, targhe commemorative; anche l’indegnissimo e reazionario vescovo Amorelli viene registrato (ed esaltato) come pregiato cittadino dai cronisti locali del tempo.
Selettivi, però, per censo e ideologia.
Nessuna memoria resta del mastro calzolaio Concetto Lanza, braccio esecutivo e fedelissimo di Adorno, che insieme a lui fu giustiziato, mentre per più di un secolo e mezzo si è cercato di cancellare totalmente dalla memoria collettiva l’esistenza del coraggioso patriota mazziniano, il sacerdote Emilio Bufardeci.
Fu l’unico tra gli storici siracusani della seconda metà dell’Ottocento – codini e filosabaudi, ma così erano prevalentemente i custodi delle glorie patrie in tutta la Sicilia – a negare decisamente la lettura risorgimentale di quegli eventi, nel suo libro di memorie del 1868 – Le funeste conseguenze di un pregiudizio popolare – indicandone i responsabili politici e le sanguinose conseguenze. Non gli è stato mai perdonato.
Solo qualche anno fa gli è stata dedicata una strada, ma lontana da Ortigia, al margine nord di Siracusa.