(di MARTINA CORTIMIGLIA)
Corleone, 29 Marzo 2020
Ore 20.32 – Giorno 20 di reclusione.
Sono dentro quattro mura da quindici o venti giorni, circondata da cose: le stoffe verdi dei cuscini, delle tende e dei tappeti, il legno delle sedie, della scrivania e dell’armadio di camera mia. A volte mi imbatto in arnesi di acciaio e altri oggetti di ceramica, passando per la cucina. Non vi è più altro e allora guardo solo cose: i mobili, i piatti della cucina, le stoffe dei divani; non posso fare nulla con questi inanimati compagni della quotidianità, ma li guardo come se potessero parlarmi
Non è strano, mi capita spesso di conversare con la bambola di quando ero bambina: mi adagio con lei dimorando tra i morbidi cuscini comprati al mercato e viaggio tra presente e passato, memoria e fantasia, inseguo le immagini che mi appaiono improvvise e mi addentro fra i giardini infiniti della mia mente, fra selve intricate da bonificare e spianate lussureggianti di verde da coltivare. Entro in un’altra dimensione dalla quale improvvisamente sono costretta ad uscire, strappata dalle parole della giornalista del TG5 che senza sosta comunica i soliti annunci sui contagi e sui morti che aumentano a causa del Corona-virus. Così mi catapulto nuovamente in un presente troppo crudo e difficile: i nonni lontani, papà con turni massacranti all’ospedale, mamma che si inventa ricette per tentare di colmare vuoti spaziali e temporali che si sono enormemente dilatati confondendo i confini, che diventano a volte troppo stretti a volte troppo larghi. Il mio umore è altalenante, passo da momenti di euforia a momenti di tristezza, mi chiedo come sarà quando tutto questo finirà, se la vita tornerà come prima o se avremo difficoltà a relazionarci gli uni con gli altri, se ci abitueremo a preferire la solitudine, l’inettitudine e la pigrizia al dialogo, alla dinamicità e al calore dell’ abbraccio. Così tento di trovare le risposte che cerco in vecchie foto impolverate, in testi di canzoni antiche e moderne, in film comici e drammatici, ma spesso riesco a trovarle soltanto nelle parole di libri e degli articoli di giornale appena scoperti e mi ritorna in mente quanto detto dalla professoressa di Letteratura italiana contemporanea che durante una delle sue video lezioni ha fatto riflettere sull’importanza della parola che adesso più che mai è una grande protagonista perché riscalda il gelo di questa nostra solitudine. Le parole oggi più che mai sono un mezzo liberatorio con cui esprimere sentimenti, emozioni, idee, raccontare le esperienze di vita vissute, i ricordi passati e le conoscenze apprese. Le parole possono diventare un faro che illumina .il cammino accidentato di queste nostre giornata E non posso fare a meno di citare Vittorini che, durante questa quarantena, mi tiene compagnia, mi fa sorridere, emozionare, indignare e soprattutto riflettere, come fosse qui in mezzo a noi a vivere anche lui questa terribile situazione di sospensione che ci porta inevitabilmente a fermarci. :Stop. Fermi.
E allora annuisco quando leggo: “Ogni uomo è malato una volta nella vita. Conosce questo estraneo che è il male, può comprendere il proprio simile. Ma forse non ogni uomo è uomo e non tutto il genere umano è genere umano[…] Un uomo ride e un altro piange tutti e due sono uomini. Anche quello che ride è stato malato, eppure egli ride perché l’altro piange. Egli può massacrare, perseguitare. Non ogni uomo è uomo allora e non tutto il genere umano è genere umano, ma quello solo del perseguitato. Uccidete un uomo, egli sarà più uomo. E così è un uomo un ammalato, un affamato […]. Togliete la malattia al malato e non vi sarà dolore, date da mangiare all’affamato e non vi sarà dolore. Ma l’uomo nella malattia che cos’è? E che cos’è nella fame? Non è la fame tutto il dolore del mondo? Non è l’uomo nella fame più uomo? Non è più genere umano?”.
Incredibile come i classici letterari possano aiutarci a interpretare il presente e a dar voce alla realtà che stiamo vivendo. E’ questa la magia della letteratura, la sua capacità di divenire esperienza valida oltre i limiti del tempo e dello spazio.
E intanto rimedito sulle parole di papa Francesco e mi chiedo se in questa situazione siamo davvero tutti uniti, tutti uguali, tutti sulla stessa barca o se al contrario ci rintaniamo in noi stessi pensando soltanto al nostro dolore, alla noia che ci assale, alla libertà vincolata e bla bla bla, negando ogni possibile aiuto che potrebbe esserci richiesto da parte dei più bisognosi, da parte di chi ha fame, sete, da parte di chi è povero e malato. Continuo a rimuginare mentre bevo un bicchiere d’acqua e intanto fuori piove e quando piove tutto sembra più triste. Guardo il mondo da dietro la finestra appannata di camera mia, filtrato dalle goccioline di acqua condensate nei vetri. Mi siedo sul letto e guardo Lulù seduta sulla mensola di fronte a me. Ha un viso paffutello e lunghi riccioli biondi che le scendono sulla fronte. La prendo e la sistemo comodamente sulla seggiolina e inizio a raccontarle dei miei pazzi weekend palermitani.
Ed eccomi, come per magìa, improvvisamente nella città che tanto amo, Palermo. È domenica e come di consueto, dopo il pranzo a base di tonno e lattuga con le mie coinquiline, scendo da casa diretta verso il centro della città, inebriata dal profumo di limoni che inonda le strade e scaldata dai raggi del sole. Mi ritrovo subito in via Maqueda e guardando sulla sinistra vedo Piazza Pretoria con la sua immensa fontana, oggi chiamata anche “Fontana della vergogna”, per la nudità delle statue. Alle spalle, più a nord Piazza Bellini in cui si affaccia la Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, nota come la Martorana, un ex convento abitato dalle monache che diventarono famose proprio per avere inventato a pasta riali di mennule o frutta martorana. L’incrocio dei Quattro Canti è sempre stracolmo di gente. Mamme e papà con i passeggini, fidanzatini avvinghiati nella morsa di un abbraccio infinito, bambini che mangiano un gelato sempre troppo grande per le loro bocche. Ho voglia di scendere verso il mare, così imbocco Corso Vittorio e proprio lì sulla sinistra, ai margini del marciapiede c’è un chioschetto che vende panelle e crocchè: il panellaro indossa una canottiera bianca con una medaglia di cioccolato sullo stomaco, lo vedo in piedi, concentrato a friggere le panelle in un pentolone posto su un piccolo carretto siciliano giallo, rosso, verde e blu. Mi sembra di sentire l’odore di frittura fino a qui. Alle sue spalle si trova la stradina della Vucciria, la Taverna Azzurra, luogo di voci squillanti, abbracci, incontri, frasi fugaci tra un tiro e l’altro di una sigaretta sempre troppo breve. Continuo a camminare e da lontano scorgo il mare. Affretto il passo, distrattamente inciampo, finalmente giungo a Porta Felice e attraverso la strada. Anche qui vedo un mucchio di persone. Immagino di sentire da lontano una musica: Mafia e Parrini di Rosa Balistreri. Canto e ballo con la bambola in mano e esclamo: “Palermo dovrebbe essere considerata la città delle donne; in fondo è la città di Santa Rosalia. “Viva santa Rusulia, viva!” questo è il caloroso inno con cui ogni anno i palermitani, il 14 e il 15 luglio, iniziano “u fistinu”. La statua della santa alla fine della processione giunge su un carro maestoso proprio al Foro Italico e qui si assiste ai famosi giochi d’artificio, tra lo stupore e l’orgoglio dei presenti i quali, tra una babbalucina e l’altra, si godono lo spettacolo di luci che scompaiono nell’acqua del mare. Il suo azzurro fa da cornice al quadro di una città in festa sorvegliata dal silente Monte Pellegrino, in attesa dell’arrivo del mese di settembre per festeggiare nuovamente la Santuzza, con la consueta acchianata dei devoti. Eh si per Santa Rosalia la festa continua!
Mi taliu attorno e sono abbagliata dalla tipica luce esotica palermitana piena di colori che nella mia mente illumina le Mura delle Cattive, cioè delle vedove che passeggiavano lungo questa terrazza che, costruita su un piano sopraelevato rispetto alla strada, consentiva a queste donne di potervi passeggiare senza scandalizzare la cittadinanza. Altre donne, penso, donne virtuose o infelici che in qualche modo hanno contribuito a tessere la storia della città. “Ciao giò” immagino che alle spalle una voce mi distrae. È un africano che vuole vendermi un accendino. “Non fumo, dico”. Giò, gioia. Ti chiamano gioia anche se non ti conoscono, come se si desse per scontato che sei una bella persona. Gioia è una bella parola, una di quelle che contengono un sacco di significati. Sorrido, respiro e penso “Palermo è viva, la Sicilia è viva, noi siamo vivi.” E sono tanto viva che mi brontola lo stomaco, mi è venuta voglia di un’arancina, immagino di comprarla e mangiarla: È fimmina, penso, anche lei!
Ancora una volta Vittorini aveva ragione quando scrive “Il ricordo è l’in più di ora”, è proprio così. Ho camminato stando ferma, ho viaggiato con la mente. La soddisfazione è la stessa, la stanchezza pure. Ho visitato luoghi, ho incontrato persone e ho conversato, mi sono aggirata con loro in posti lontani, mi sono proiettata in un’altra dimensione, quella più nascosta e intima, in una dimensione che è solo mia. Ho sorvolato Palermo dall’alto, come fossi un moderno drone che fotografa questa bellissima sposa vestita di bianco, verde, giallo, blu e rosso immortalando la centrifuga di storie, culture, stili, idee, persone e cose che fanno di Palermo tante città. Mi sono innamorata di questa città ancora una volta, di nuovo, come se non l’avessi mai visitata prima d’ora.
Vado in cucina e dico a mia madre :” Mamma domani esco, vado a Catania!