VANESSA AMBROSECCHIO.
DAD’S MELODY – DAL DIARIO DI UNA “PRO”
Lunedì 11 maggio 2020
– Pro?… Pro!
– Mi ha buttato fuori!
– A me non mi fa entrare…
– Pro?
Mi chiamano. Mi chiamavano in modo diverso. Era più lungo, prima. Non dico l’appellativo intero, no. Non esageriamo. In classe si arrivava a ben quattro sillabe, però. Quattro su cinque, la maggioranza assoluta. Quasi un plebiscito. Pro-fe-sso-ré. Così mi chiamavano. Di lusso. Negli ultimi tempi si era ristretto a Prof, ma ci sta, è una terza, succede sempre così, cresce la confidenza, loro si sentono più grandi, le distanze si accorciano. E poi Prof salva le apparenze, è ancora l’abbreviazione di un titolo professionale, gioca sulla sovrapposizione ironica dei registri linguistici, il formale col familiare, certo, ma fosse anche per questa piccola malizia stilistica che denota una seppur non del tutto consapevole tecnica comunicativa, Prof è ben accetto. Anche perché, in genere, è utilizzato per affetto. Per chiederne, o averne conferma.
Adesso però hanno abbreviato ulteriormente. “Pro” mi chiamano. Hanno abbreviato, e non credo per le stesse motivazioni. Le distanze non si sono accorciate di più. In questi ultimi due mesi, al contrario, si sono dilatate, si sono talmente stirate da assottigliare al massimo il filo che ci ha legato in questi tre anni. “Pro”, poi, mi sa di IPad, di Mac. Sarò influenzata dall’abuso di mezzi tecnologici cui siamo costretti dagli ultimi eventi. E sbaglio, però, perché dove insegno io i ragazzi non hanno i Mac. Non hanno neanche i pc. I miei alunni fanno tutto col telefono, quando ce l’hanno. Se no, col telefono di mamma o papà. Quando ce l’hanno. Il telefono, la mamma, o il papà.
– Pro-ò?
– Ci sei?
– Pro, di nuovo mi ha buttato fuori!
Chi, avrei chiesto in classe. Chi è stato? E giù valanghe di accuse e giustificazioni, recriminazioni e insulti. Ci avremmo passato l’ora a scoprire il colpevole. Ci sarebbero stati un paio di imputati. L’accusa e la difesa avrebbero sciorinato le loro arringhe e io, il giudice, avrei emesso la sentenza, ma solo alla fine di un sofferto dibattimento. Una sentenza salomonica, s’intende, che avrebbe tenuto conto delle ragioni di entrambe le parti per ricomporre, da buona Eumenide, l’armonia sociale. Ma adesso non è una persona fisica l’accusato. No. Non l’ho capito subito, all’inizio della DAD.
– Chi? Chi è stato?
Un fattore X. Un innominabile. Indefinibile secondo categorie umane. Non percepibile attraverso i cinque sensi. Un ente oltreumano, forse.
– Mi butta sempre fuori.
– E a me non mi fa entrare.
– Ma chi? Chi fa questo?
– Buh. Il telefono…
– Internet…
– La linea…
– Coso… Skype.
Un nemico nuovo viene dunque a ingrossare le fila dei miei numerosi nemici. Sono tanti i miei nemici, a scuola. I libri che si spiegano come i libri chiusi, per esempio. O quelli che prevedono compiti talmente difficili che agli insegnanti danno il volume con le soluzioni: l’unica differenza rispetto alle parole crociate è che non sono capovolte. Facile, direte voi. Ma quando la prima volta ho prestato il libro a un alunno e quello ha protestato: – Non vale, prof. Tu ci hai le risposte – mi sono vergognata come una ladra. Oppure il dvd che si impalla nel bel mezzo di un film, dopo che ci ho messo mezzora a farli sedere e a convincerli che ne varrà la pena. O il bidello che mi tende la circolare urgentissima, dopo che ci ho messo mezzora a farli sedere e a convincerli che ne varrà la pena. O la prova di evacuazione, dopo che ci ho messo mezzora a farli sedere e a convincerli che ne varrà la pena. O l’assegnazione di alunni “divisi”, cioè provenienti da altra classe il cui docente manca e che non c’è modo di sostituire (dopo che ci ho messo mezzora a farli sedere e a convincerli che ne varrà la pena). “Divisi”, già. È scolastichese. Lo dicono gli alunni. Dicono proprio così. – Che ci fate voi, qui? – chiedi, se ti ritrovi in classe alunni non tuoi, per esempio. E loro rispondono: – Siamo divisi. – E finiamo anche noi insegnanti per dirlo: – Dove sono quelli di 3H? “Sono divisi”. O “li hanno divisi”. O peggio ancora, di un singolo alunno: – Dov’è Rossi Mario? – “È stato diviso”, o “È diviso in 3C”. Che ti fa pensare che troverai soltanto testa e tronco in 3C, mentre gli arti sono rimasti nell’aula di appartenenza, al fine, possibilmente, di ridurre l’alunno all’innocuità.
Ora però tutti questi nemici si sono dileguati. Non ci sono più bidelli o alunni divisi, a interrompere la lezione. Gli alunni, peraltro, sono entità immateriali, ormai, simulacri di se stessi, ologrammi di alunni, e non potremmo agguantarli e dividerli, gli arti da una parte, tronco e testa dall’altro, neanche volendo. E anche i libri che si spiegano come i libri chiusi si sono dileguati. Sono chiusi, materialmente, e definitivamente. Sono cioè perfettamente coerenti con se stessi. Dopo le prime due settimane di DAD, in cui ci abbiamo provato a lasciare pagine di lezione, a assegnare esercizi dal testo, abbiamo compreso che era una partita persa. Gli alunni hanno adottato una sorta di muto dissenso, di resistenza passiva. Gli chiedevo e richiedevo di prenderlo, il testo di antologia o quello di grammatica, avremmo letto insieme. Non lo trovo più, era la risposta più frequente. Data con naturalezza, con assoluto candore, senza alcun senso di colpa o il minimo bisogno di giustificarsi. Chiusa la scuola, chiusi i libri, come in vacanza o dopo gli esami. Lo dicono sempre, i miei alunni, arrivati in terza media. Dopo gli esami brucio tutti i libri! Con una convinzione così appassionata che te li vedi davanti, quei quindici piccoli falò, una scena di sapore bradburiano che la dice lunga sulla bontà del lavoro che sei riuscita a fare in quegli anni. Morta e sepolta la scuola, dunque, i libri sono stati riposti in quella stessa fossa comune in cui la nostra vita di prima si è trasformata di colpo in passato, due mesi fa. Perché la scuola è morta e sepolta. La scuola di prima. Quella che facciamo adesso non dico che è buona o cattiva. Dico che è un’altra cosa. È un’altra scuola, ecco.
E gli alunni lo hanno capito prima di noi. Per cui, via i libri e via i quaderni. All’inizio, ha avuto il sapore della rivoluzione. Certo, le rivoluzioni vengono dal basso. Questa assomigliava di più a un meteorite. Per la portata dell’impatto, oltre che per l’imperscrutabile fortuità dell’evento. All’inizio, ha avuto soprattutto il sapore dell’imperscrutabile colpo di culo. Lo ripetevano ogni mattina gli alunni, nella scuola di prima. Entrando uno a uno in classe, passo strascicato, occhi gonfi, le palpebre appena schiuse, le teste coricate sui banchi: – Ma perché ogni mattina? Perché così presto? Perché non finisce di giovedì, la settimana? O di mercoledì, non ci offendiamo – dicevano. Ma a che ora andate a letto? chiedevo io. – Alle dieci – rispondevano, sbattendo ciglia innocenti. Ed è la pura verità. Vanno a letto alle dieci. Salutano, passano dal bagno. I genitori pensano di esserseli tolti dalle palle. Loro si chiudono in camera, spengono la luce. E restano davanti al telefono fino alle tre. Per cui la scuola chiusa, la vacanza fuori dal conto, è sembrata un miracolo, all’inizio, una vittoria alla lotteria di quelle che ti cambiano la vita. Un biglietto omaggio per il Paese dei Balocchi, ma meglio ancora di come sia andata a Pinocchio, perché alla guida del mezzo non c’era l’omino mellifluo e malefico, il commerciante di somari. C’erano loro: i genitori, i prof, il preside e in capo a tutti Ministro e Presidente del Consiglio, per cui neanche la fatica di secernere un po’ di senso di colpa. Ci si andava tutti insieme in gita scolastica a quel Paese, e passiamo a prendere il Grillo Parlante che viene a fare quattro salti anche lui.
Così l’inizio è stato goliardico, baccanalesco. Prima dell’istituzione della DAD, i ragazzi vegliavano tutta la notte e dormivano fino al pomeriggio. Quando scrivevo qualcosa nella chat di Whatsapp alle 11.00, alle 12.00 del mattino, buio. Nessuna risposta per ore, neanche dai più diligenti. Finalmente alle sette del pomeriggio qualcuno sbadigliava un «ok», «okok» se era particolarmente in forma. Dalle nove della sera, poi, si scatenava il gioco di fuoco. Tutti a chiedermi come entrare su Weschool, come creare l’account, come fare quel dato compito, e giù a tempesta messaggi vocali.
Una mattina ho scritto alla rappresentante dei genitori. «Dove sono tutti» le ho chiesto. «Non so, forse dormono», mi ha risposto mezzora dopo, di certo sbadigliando anche lei. Infatti «Deve capire» aggiunse poco dopo, «Deve capire che facciamo un po’ tardi per ora». Dovevo capire, ecco. Colpa mia che non capivo. Quell’inatteso prolungamento delle vacanze di Carnevale assomigliava piuttosto al Natale, Ceneri comprese. Li vedevo giocare a baccarà e a settebello fino all’alba, mangiucchiando frutta secca e panettone in allegra compagnia. E io nella mia cella di clausura a svegliarmi come quando andavo a lavoro, a dannarmi al pc per preparare materiali e andare a letto con le galline per essere lucida l’indomani. «Deve capire» le avrei risposto, «che io vivo esattamente come voi, genitori anziani, famiglia a carico, spesa da fare, le file al panificio: preferisco lavorare con la luce del sole, sa». Ma non ne ho fatto niente. Dovevo capire, aveva ragione lei. Il mio mestiere, e dunque il mio dovere, lo capisco meglio ogni anno che passa, è appunto questo, mi piaccia o no. È capire. Capisco che devo capire. Vi sbagliate se pensate che sono i ragazzi a venire a scuola per capire. A capire, a scuola, siamo noi. Prima capiamo noi, poi loro. Se noi prof capiamo, capiranno anche loro: i teoremi come l’uso del congiuntivo. I veri studenti, a scuola, siamo noi prof. Ci piaccia o no.
– Pro! Ci sei?
– Mi ha mutato!
– Pro, ti ha mutato pure a te!
È l’ente supremo del web a tirarci questi scherzi da prete. Ogni tanto ci “muta”. Non nel senso di una trasformazione genetica o di uno sdoppiamento della personalità. Nel senso che ci ammutolisce, ci riduce al silenzio, ci disattiva il microfono, via. Il fatto è che, a seconda della zona in cui risiedono gli alunni o delle fasce orarie, la copertura di rete è debole e non regge il carico di tutte quelle immagini e voci che contemporaneamente si rincorrono etere etere nel cielo sopra l’Italia. E tirannicamente, lui, l’ente supremo, decide di economizzare. Taglia sull’audio, per cominciare. O impalla il video, e tu vedi uno che stava parlando congelarsi in un fotogramma mentre la sua voce continua a fluire. Poi, se proprio esageri a ascoltare e parlare insieme, ti butta direttamente fuori. È un po’ come nei collegamenti via satellite in televisione: l’immagine che si sgrana in quadratini, o la voce e il movimento delle labbra che vanno a due velocità. Mi sembrano un po’ sulla Luna, i miei alunni. Non mi sorprenderebbe vederli lievitare in piena lezione verso i soffitti delle loro stanze, coi piedi all’aria. Mi sembrano molto più distanti di quanto non siano materialmente, ecco. Nella DAD, come la chiamano, certe distanze si allungano.
Ma non è solo il tirannico ente supremo a mutarci o a buttarci fuori, questo va detto. A volte sono loro, i “partecipanti”. A volte, in piena lezione, uno di loro improvvisamente sparisce e riceve un tenero messaggino in cui un’emoticon con la faccia da vittima illustra la frase «un partecipante ti ha rimosso». C’è qualcuno, insomma, qualcuno che è impossibile smascherare, che trascorre la lezione a buttare fuori gli altri, persino i prof. È successo anche a me. Colpa mia, naturalmente. Avevo cominciato col rimproverarli. Perché non facevano i compiti, perché non mi mandavano le schermate degli esercizi, perché non rispettavano le scadenze. Così qualcuno ha cominciato a “rimuovermi”. Sono rientrata subito cercando di ignorare la provocazione, e dopo due minuti di omelia di nuovo clic, mi ha rimosso. Non riuscivo a completare, che dico a completare, a iniziare una minaccia di colloqui coi genitori o valutazioni al ribasso, che quello mi rimuoveva. E io clic, rientravo. E lui clic, mi rimuoveva, e io clic, e lui clic, sempre più freneticamente. Era una sfida all’ultimo clic, una specie di avvilente videogiochi col sottofondo della gazzarra degli altri che protestavano perché non si riusciva a fare lezione. Ero furiosa, naturalmente. Ero furiosa perché eravamo ad armi pari. Ma anche stavolta, dovevo capire. Capire l’irresistibile ebrezza che dà esercitare potere su un potente. Ricordate “Tonino l’invisibile”? Chi non ha desiderato, ragazzo, essere invisibile e fare tutto quello che è vietato? Te la ricordi la professoressa di matematica alle medie? Quella che non doveva volare una mosca e se fosse volata, la sventurata, dentro la nostra aula, sarebbe caduta stecchita per terra sotto il suo sguardo? Di’ la verità, non l’avresti volentieri “rimossa” anche tu?
– Pro?
– Ma che, ti hanno buttato fuori di nuovo?
Ringrazio mentalmente per la solidarietà. No, non mi hanno buttato fuori, stavolta. Sono io che sto zitta e li ascolto.
– Pro…
Non arrivano più neanche alla f, poveracci. Non gliela fanno. La f di prof è già troppo fiato per loro, è una fricativa, una labiodentale continua, uno spreco di ossigeno, insomma. Sono stanchi, i miei alunni. Non potevano prevederlo, all’inizio. All’inizio era sempre domenica. Che fate, gli chiedevo. – Mangiare e la play. – La playstation, ok. Ma chissà mangiare cosa, mi chiedevo io, che fare la spesa è così complicato. Ma le loro mamme cucinano, sfornano dolci e pizze ogni ora, non insegnano, le loro mamme. Le loro mamme trascorrono la quarantena a cucinare. Io trascorro la quarantena a inseguire le loro mamme per inserirle nel registro elettronico, per fargli richiedere i tablet in comodato d’uso, per fargli firmare la liberatoria sulla privacy. Ma non è colpa loro se non rispondono. Hanno le mani in pasta, povere.
Ora però sono stanchi persino di mangiare, i miei alunni. Sono stanchi della loro vita. Hanno una strana vita, i miei alunni, da quando è incominciata la DAD.
– Pro, ma… ci sei?
Martedì 12 maggio 2020
Cos’è la DAD? Darne una definizione non è facile quanto scioglierne l’acrostico. Che è Didattica A Distanza, ma potrebbe essere Docenza A Domicilio, o Docente Attacca Discente o Discente Ammazza Docente. Per capire veramente cos’è la DAD dobbiamo piuttosto fare una semplice operazione di calcolo, una sottrazione. La DAD, infatti, è il risultato del rapporto tra un minuendo e un sottraendo, anzi: tra un minuendo e tanti sottraendo. È il “resto”, come si dice tecnicamente in matematica a proposito di questo tipo di operazioni: la DAD è ciò che resta di una sottrazione. Il minuendo è la Scuola così come la conosciamo: aule, banchi, quaderni e casino. La DAD è la Scuola meno… e comincia la lunga lista dei sottraendo: meno aule, meno finestre, giardino, androne: meno location; meno levatacce e pomeriggi (per le scuole dove si fa il pomeriggio); meno trincee di zaini al mattino, meno tonfo di libri sui banchi, meno scroscio di pagine; meno occhi gonfi, meno cappucci tirati sugli occhi, meno unghie sporche e capelli grassi, meno fiato di sonno, meno ascelle, soprattutto; meno odore di gomme e matite misto a quello delle merendine confezionate, meno carta di merendine confezionate; meno pipì per terra nei bagni (anche quello dei prof); meno pugni, schiaffi, pacche, sberle; meno incidenti sul lavoro (e sullo studio applicato dell’Attività Motoria), meno ghiaccio secco; meno pianti; meno genitori urlanti; meno assegnazione dei posti, meno “io con lui no”, meno “si prende tutto il banco”, meno linee tracciate con la riga della “mia metà banco”; meno lavori di gruppo, meno liti di gruppo; meno “ora faccio venire a mio padre”; meno avventure in autobus, meno “se facciamo un incidente muore solo il conducente”; meno risate; meno ore saltate facendo saltare i nervi alla prof; meno “ci vediamo fuori”, meno “ma ti posso fottere a legnate anche qui”; meno bulli, meno vittime, meno circle time; meno polemiche infinite perché ho lasciato un esercizio in più; meno “possiamo fare la festa, prof?”, meno tombola e panettone a Natale, meno pizza e patatine a fine anno; meno LIM, meno LI M usata a tutto volume per i balli di gruppo, meno LIM che in un anno ha funzionato solo per i balli di gruppo; meno “questa lettera è per te, prof” e poi non è una lettera, solo un foglio di quaderno con un grande TVB.
È per questo che i miei alunni, adesso che è decollata la DAD, non fanno una vita da alunni. Fanno una vita da impiegati. In smart working, per giunta. Si alzano al mattino, occupano la postazione, entrano in piattaforma per tre quattr’ore al giorno, spesso senza accendere microfono e webcam per non sovraccaricare la linea, subiscono le tirate dei prof, espletano le pratiche loro assegnate, recepiscono nuove indicazioni e, come funzionari dopo una riunione col capo area, tornano in stanza al loro triste mucchio di file. Perché i libri che si spiegano come i libri chiusi li abbiamo chiusi per sempre, è vero. Ma al loro posto abbiamo aperto gli esercizi online, le lezioni online, i video didattici online, le verifiche online. Perché la Scuola con tutti quei meno è solo lezioni, verifiche, scadenze. La parte più importante, direte voi. Il “resto”, dicono loro. Che in fondo la matematica la sanno.
Anni fa mi era venuta in mente una buona idea per uno spot, una specie di pubblicità progresso per riabilitare la categoria docente giudicata dal senso comune “casta-di-mangiastipendio-poco-ma-sicuro-con-tre-mesi-di-ferie-l’anno-come-nessuno-mai”. Nel primo fotogramma di questo mio fantastico spot si vedeva un’azione di gioco e un aitante quarantenne parare un goal, e la scritta in sovrimpressione “Non sono un calciatore”; nel secondo una giovane donna china in ascolto di un’adolescente disperata, e la scritta “Non sono una psicologa”; nel terzo una donna matura porgere da dietro una scrivania saggi consigli a una signora male in arnese, e la scritta “Non sono un’assistente sociale”; nel quarto un allegro trentenne guidare un festaiolo trenino, e la scritta “Non sono un animatore”; nel quinto un uomo alla chitarra intento a dirigere un coro, e la scritta “Non sono un cantante”; nel sesto un’arzilla signora in tenuta da viaggio capitanare una comitiva in una qualche scarpinata, e la scritta “Non sono una guida turistica”; nel settimo un uomo intento a guidare la realizzazione di un murales, e la scritta “Non sono uno street artist”; nell’ottavo una donna elegante con gli occhiali sul naso e un iPad in mano digitare mentre parla a un fisso con un orecchio e a un auricolare con l’altro, e la scritta “Non sono un tour operator”. Nell’ultimo, gli otto fotogrammi rimpiccioliti e riuniti insieme allargavano l’inquadratura in modo da mostrare che tutti i tizi di cui era stato detto cosa non fossero si rivelassero diversamente alle prese con alunni, e la scritta “SONO UN INSEGNANTE”. Continuavo a ripetermi che se ci fosse stato un concorso per spot a tema avrei partecipato, sicura di vincere. Col tempo ho cambiato idea, il soggetto non mi è sembrato più così efficace. È un prodotto a tesi, non sorprende, capisci quasi subito dove va a parare. E tuttavia continua a avere il merito ai soli miei occhi (poiché nessuno l’ha mai visto né mai lo vedrà) di sintetizzare cos’è per me la scuola. E non per scelta o per mission, come usa dire oggi. Ma perché è così, cioè le cose stanno così a scuola, che tu lo voglia o no, o bere o affogare. O parare un goal o affogare. O fare il consultorio o affogare. O guidare i trenini o affogare. O scarpinare o affogare. O fare il perfomer o affogare. O fare il tour operator o affogare. Insomma, o fare tutte queste cose (di cui minimo due contemporaneamente) o affogare. Con buona pace del senso comune di chi non ha mai trascorso quattro ore di fila in una scuola. Ecco cosa non andava, infatti, nel mio spot ideale: era celebrativo. Quello che io invece avrei voluto esprimere era una constatazione di fatto, una necessità. A scuola è così. Non è una questione di bravura fare tanti mestieri in uno. È questione di salvarti la pelle.
Ora con la DAD alcuni di questi mestieri sono decaduti, il che sindacalmente è anche più giusto. Niente più trenini, per dirne uno. Niente murales né tour. Fine delle scarpinate e delle performance. Finalmente i docenti fanno quello per cui sono pagati, e poche chiacchiere. Si alzano al mattino, occupano la postazione, entrano in piattaforma per tre quattr’ore al giorno, spesso parlano a presenze immateriali che non accendono microfono e webcam per non sovraccaricare la linea, subiscono le bizze informatiche degli alunni, assegnano pratiche da espletare, impartiscono nuove indicazioni e, come capi area dopo una riunione con i propri funzionari, tornano in stanza al loro triste mucchio di file. Una vita da impiegati. In smart working, per giunta.
– Pro! Ma… c’è?
– C’è, ma…
– Non si sente…
– E non si vede!
– Forse non la fa entrare…
– O l’ha buttata fuori.
– Picciò, ma c’erano compiti?
– C’era da pagina 52 a pagina…
– Minchia, io ’un fici nenti…
– Io manco…
– Picciò, mi stanno finendo i minuti…
Li ascolto muta, nascosta dietro l’inganno della mancata connessione. Sono disconnessa, oggi, sì. Ma non è colpa del mio wi-fi. Non ho problemi tecnici, io. Ho un Mac, un iPad, due iPhone e rete in ogni angolo della casa. Potrei fare lezione pure al cesso, io. Loro no. Hanno un telefono quando va bene e devono individuare il punto della casa dove “prende”. Non è escluso che sia il cesso. Magari dal cesso intercettano il wireless di un vicino ed è fatta, connessione gratis per tutta la DAD. Se poi qualcuno in famiglia ha un bisogno impellente, mettono in muto, dov’è il problema?
No, non ho problemi di linea, oggi. Sono disconnessa dal presente. Li guardo, la mia 3H. No, non li guardo, perché disattivano tutti la webcam. Li sento? Non sempre. A volte sono inghiottiti da un buco nella rete (la loro rete è piena di buchi, e dire che è una borgata di pescatori, dove insegno). Neanche loro sentono me: -Pro, parli a gettoni! – protestano. Ma sono i buchi nella rete. E chi ha la rete bucata non piglia pesci.
I primi tempi ci provavo. – Fatevi vedere un attimo, vi voglio salutare! È tanto che non ci vediamo… – Comparivano come lampi, neanche il tempo di valutare se erano cresciuti, ingrassati, più baffi, più tette. Qualcuno stropicciava un occhio, qualcun altro sbadigliava senza ritegno. Uno era sotto le coperte, una in cucina, per sfondo lo sfaccendare astioso di una madre. Uno aveva due cristiani lunghi lunghi su un divano intenti a giocare coi telefoni, due bodyguard certi di non essere visti: pareva sequestrato, o ai domiciliari. Dietro a una è passato il padre in canottiera e mutande, e non era uno spettacolo edificante. Un altro camminava per tutta la casa, forse in cerca di rete, forse in preda a un raptus di iperattività. Gli ho visto correre intorno cucina corridoio porte una stanza, sono entrata in diretta nella sua povera intimità, nello sforzo evidente di mettere insieme un po’ di decenza tra i fiori di plastica nel centrotavola e un tondo di pizzo industriale su una spalliera. Avevano ragione loro, meglio spegnerle le webcam.
Oggi l’ho spenta anch’io. Sono lì, in linea. Ma disconnessa dal presente. Li sento cercarmi sempre più incerti, sfiduciati. Sento allentarsi la maglia che ci ha legato per tre anni. Vagano le loro voci nel buio del web come satelliti che abbiano smarrito l’orbita, come un sistema solare in cui la forza centripeta sia vicina a spegnersi e i pianeti prendano il largo in un fluido che si fa gas. Ecco, all’inizio della DAD la scuola da solida s’è fatta fluida. Adesso siamo prossimi all’evaporazione.
– Pro…
– Ma c’è la lezione?
– Entrate?
– Ma chi?
– Gli altri.
– Ma se manco c’è la Pro…
No, oggi non c’è la Pro. Oggi la Pro è connessa col passato. Vi vede in prima media, un’accolita di pirati litigiosi e ignoranti, una banda di piccoli sgherri ringhiosi e incazzati. Un paio di semianalfabeti, una buona metà con tratti dislessici. Due disabili non riconosciuti e uno sì. E fra i “bravi” una bisbetica, un’ansiosa, un ludopatico, un depresso. Quindici atolli, un oceano fra voi e dentro ciascuno di voi. Ciascuno col suo buco. Fratello disabile, sorella disabile, genitori separati male, padre in carcere, madre paziente oncologica, padre disoccupato con famiglia numerosa, padre alcolista. Si poteva formare meglio questa classe, mi disse la rappresentante. Si poteva formare meglio anche l’Italia, le avrei risposto, e il paese in cui, conseguentemente, viviamo oggi: tre quarti di classi in Italia sono fatte così, è uno spaccato, un saggio, un campione buono per farne sondaggi. Ma mi limitai a sorridere e a dirle: – Ce la faremo. – Poi hanno cambiato docenti ogni anno, tutti tranne me. Li ho accompagnati solo io in questa traversata, solo io conosco la storia di tutti e di ciascuno. Uno di loro ha avuto un incidente quasi mortale, di un altro l’ha avuto la madre, uno s’è ustionato, a un altro è stata riconosciuta la disabilità solo quest’anno, ma quando ciò è avvenuto, il docente di sostegno titolare si è messo in malattia, dopo un mese di convocazioni è arrivata una supplente, che dopo tre giorni ha preferito un altro incarico; la successiva, bravissima, dopo un mese, causa ricorso, ha dovuto rinunciare all’incarico; la terza, microbiologa catapultata nella scuola dritto dalla ricerca, ha appena avuto il tempo di capire di che si trattava ed è esploso il Covid.
La sfiga ha perseguitato la mia 3H dall’inizio. Ho titolo per dirlo, visto che alla sfiga non credo. O piuttosto non cedo. Se ne stavano facendo un complesso. «Siamo la classe peggiore, ce lo dicono tutti», «Siamo sfigati», «Tutti i prof se ne vanno perché nessuno ci vuole». Io li guardavo e allargavo le braccia come a rispondere: Sono qua. «Certo, tu non te ne puoi andare» ribattevano. E anche questo era vero. Ma non era tutta la verità. Il resto della verità era una mia questione personale con la sfiga, una sfida alla sfiga, se mi è concesso il bisticcio. Un rapporto direttamente proporzionale che mi scatta, tra le due. O per lo meno mi è scattato con la mia 3H. Che, per restare nella metafora matematica, è una somma di sfigati elevata a potenza. O è una classe come un’altra, un pezzo d’Italia, di umanità, come tutte.
Ma ce l’avremmo fatta. L’avevo detto alla rappresentate e ci credevo. Non in prima, non in seconda, ma in terza avremmo raggiunto il traguardo. Avrebbero imparato un sacco di cose. Li avrei portati a vedere tutti quei posti che non conoscono della città. I monumenti e i luoghi delle Stragi. I musei e i negozi equosolidali. Sognavo per loro esami più che dignitosi, in alcuni casi brillanti, in altri sorprendentemente sufficienti. Un po’ di cose le abbiamo fatte. Un po’ di progressi pure. Non si guardano più ringhiando, adesso. Adesso, chiunque metti accanto a chiunque altro, non protestano. Si aiutano fra loro, adesso. E hanno vinto un paio di campionati scolastici, hanno partecipato a qualche rassegna d’istituto: non sono più convinti di essere un’antologia del peggio. Tutti hanno imparato a scrivere meglio, che è una conquista, qualcun altro ha imparato a scrivere, che equivale a salvarsi la vita. Ma è in terza che si tirano le somme. È in terza che i rami e i germogli affondano radici. Il Covid è arrivato a strapparmi germogli e radici. Ha spazzato via tutto. Ora che dovevo tirare le somme, sono qui a fare i conti col resto. Insegno Italiano, ma la so anch’io un po’ di matematica.