Ago 07

Considerazioni sulla pandemia

(di GIULIO FERRONI)

Ciò che stava accadendo nel marzo del 2020 e la conseguente chiusura generale a chi, come me, aveva già attraversato più di settant’anni di vita, può aver dato, oltre alla più generale ansia, la sensazione di aver avuto la chance singolare di essere arrivato davanti ad un evento di eccezionale rilievo storico, una combinazione del tempo del mondo destinata a produrre comunque dei mutamenti capitali. Nato durante la seconda guerra mondiale, pur non avendola direttamente vissuta, ne avevo in fondo risentito l’eco nella mia infanzia e adolescenza; poi mi ero trovato a vivere una serie di passaggi storici, dal boom economico alle più varie modificazioni delle forme di vita, al sessantotto e al terrorismo, alle aperture democratiche e al crollo del comunismo, al trionfo del neoliberismo allo sfaldarsi della democrazia, alla rivoluzione informatica e alla globalizzazione, alla crisi finanziaria e a quella ambientale, ai fondamentalismi e ai sovranismi, in un ingorgo senza fine di speranze e fallimenti… Di fronte a molti fenomeni ed eventi avevo ogni volta sentito dire: «nulla sarà più come  prima».

Ma ora, di fronte all’arresto di gran parte del processo di produzione e consumo, questo veniva ripetuto con ancor più determinazione che in passato: si affacciavano nuove speranze (che quanto stava accadendo potesse dar luogo a un’inversione di tendenza rispetto a uno sviluppo sempre più distruttivo e insensato?), ma anche timori per nuovi disastri e fallimenti. E comunque, insieme a molti coetanei, mi sono trovato a notare: «ci è capitato di vedere anche questo, una nuova più radicale frattura storica, forse l’ultima occasione per il necessario cambiamento, oppure l’annuncio del crollo definitivo…». 

Più volte ho cercato di interrogare le contraddizioni inestricabili della situazione, la confusa varietà degli umori che essa suscitava, le risposte diverse e spesso intercambiabili date da ognuno di noi, tra le pieghe delle rispettive chiusure quotidiane, e le molteplici argomentazioni che scorrevano nei periodici, nelle televisioni, nella rete, tra l’estemporaneità dei social media e i numerosi eventi on line programmati dalle più varie istituzioni. Ho subìto, come tanti, l’invasione di quell’infodemia che si è sovrapposta e intrecciata alla pandemia, che in un certo senso l’ha sovradeterminata: ma non ho intrapreso nessuna scrittura della chiusura (non mi piace il termine lockdown), nessun diario del Covid 19, anche perché proprio alla fine di febbraio avevo cominciato un lettura e correzione della mia vecchia Storia della letteratura italiana (1991), in vista di una nuova edizione aggiornata e corretta rispetto alla precedente del 2012/2013.

Insomma nei mesi più chiusi e più pandemici ho riletto e corretto quelle 2000 e più pagine, portando il percorso storico fino all’evento che mi trovavo davanti, fino a quella primavera del 2020. Così il pensiero della pandemia e nella pandemia si è proiettato sulla storia letteraria, la situazione dell’Italia presente si è sovrapposta alla per me necessaria riflessione sulla storia d’Italia attraverso la storia della sua letteratura; la considerazione dei cambiamenti e delle cadute a cui mi è capitato di assistere nella vita, e di quello in atto, si è intrecciata allo sguardo indietro, verso i molteplici passaggi della storia del nostro paese, ai modi in cui opere grandi e piccole li hanno affrontati, raccontati, elusi, e a rilievi sulla stessa modalità di raccontare quella storia, civile e letteraria, sulla possibilità di farlo, sulla congruità tra quel racconto e il mondo infodemico in cui siamo immersi. E nel seguire il continuo sdipanarsi del tempo (pur nell’accendersi di fratture, scatti, dislocazioni) dal Medioevo al presente, è venuta come a pesare su di me la percezione della storia come un precipitare, un ruotare immaginoso e purulento, un inseguirsi di presenze a volte appena accennate (spesso solo col nome di un autore e tra parentesi le date della sua vita), a volte dispiegate nello splendore di formidabili capolavori, a volte strozzate e cancellate dalla casualità della registrazione e della memoria. In questo precipitare della storia e della vita ho avvertito semprpiù una sorta di fastidio verso l’eccessiva sicurezza di un fare storiografico che in definitiva sembra mirare a estrarre un senso dallo svolgersi degli eventi e dalle forme delle opere e dei testi, verso le argomentazioni di storici e interpreti che definiscono paradigmi autosufficienti, come in una soddisfatta comprensione del fenomeni indagati.

Lo storico che di fronte al proprio tema fa la vista di saperla lunga, che sovrappone in suoi schemi, quanto si voglia problematici, al confuso e intricato procedere delle vite e delle scritture, mi è allora apparso molto simile a tutti coloro che nel campo della comunicazione, a parte i pochi più autentici scienziati, hanno sdottoreggiato sulla pandemia, che hanno ricondotto il loro giudizio sulla situazione alla loro ideologia, alla loro filosofia, ai loro gusti culturali, o, peggio, alle loro abitudini quotidiane, al loro narcisismo esibizionistico, ai loro obiettivi politici, alla loro ricerca di consenso e di vantaggi mediatici.  

Tornare sulla storia letteraria in questo contesto ha significato porsi in modo più concreto la domanda, già affacciatasi del resto tante altre volte, sulla sua possibilità, sulla sua congruenza con l’uso e le condizioni della letteratura nel nostro mondo della comunicazione globale, della costipazione dei linguaggi, dei codici, dei materiali culturali, del totalitarismo pubblicitario e dell’alterazione dell’ambiente e degli spazi vitali. Rileggendo, ripercorrendo, correggendo, in me si sono moltiplicati tanti dubbi particolari (su cui ora non è il caso di insistere), il cui insieme si è certo legato al più diretto avvertimento di come, rispetto al tempo non lontanissimo in cui mi capitò di elaborare quella storia della letteratura, il rapporto pubblico con la storiacon il suo uso e con lo stesso sguardo verso il susseguirsi e l’accumularsi delle opere della letteratura, si sia mutato.

Una mutazione, questa, legata ad un serie fittissima di fattori, dalla virtualizzazione dell’esperienza, all’avvento della rete, alla perdita di ogni movimento della società verso il futuro: costipazione ed esplosione dei saperi, nel loro moltiplicarsi e nella loro disponibilità e reperibilità illimitata, entro l’archivio universale depositato su Internet e orientato dai motori di ricerca e dal loro rovescio pubblicitario, tra frantumazione della letturaevaporazione della critica, perdita del senso della differenza e dell’irriducibilità del passato, sua ricorrente presentificazione sotto il segno delle cosiddette digital  

E nello stesso tempo  tra pandemia e infodemia, nell’affidarsi di gran parte del nostro tempo di reclusi in casa all’azione dei media, ai contatti da essi comunque garantiti, si p sospettare che comunque la suddetta mutazione, con tutti i suoi fattori, propagandati e promossi dai vari zelatori che l’avevano accompagnata e sostenuta, si trova ora come a un punto morto, davanti a un intoppo pericoloso: quel precipitare della storia e della vita impone nuove modalità, nuovi atteggiamenti verso la considerazione del passato, rende necessaria qualche inedita visione del futuro, il ritorno di un movimento verso di esso, progetti e speranze collettive e mondiali. Riscrivere la storia, riscrivere il nostro rapporto col passato, andare al di là del ribaltamento di tutto sul presente, cercare le forme di conoscenza, di espressione, di storicizzazione, dell’unico umanesimo oggi possibile, possibilmente militante: un umanesimo ambientale.

Non si tratta di ripartire come prima, né di ritornare ancora più indietro, nemmeno alla storia letteraria del 1991, ma di far giocare la cultura e la storiala loro continuità, le loro chances residue, per una presa in carico del destino dello spazio che abitiamo, dei luoghi minacciati e delle vite minacciate. Non so se ne saremo capaci, se ci sarà qualcuno capace di farsene carico, di fare nuova storia e nuova letteratura. Oggi come mai credo che ci sia davvero tutto da inventare. 

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