(di ANTONIO DI GRADO)
I nostri antenati ebbero in sorte l’orrore insensato delle guerre. Orrore insensato, ripeto. E tuttavia dava sangue e nervi a un carattere, a un destino.
Anche noi oggi abbiamo una guerra. Anch’essa orribile e insensata. Ma almeno ci desse nervi saldi e solido buon senso! Almeno ci trovasse all’altezza di quell’atroce, interminabile emergenza che chiamiamo storia! Magari azzerasse un ingombrante e arrogante passato prossimo di ottusa fede in uno “sviluppo” incontrollato e sopraffattore, magari riducesse la forbice sempre più aperta fra privilegio e povertà, magari c’insegnasse a convivere senza violentarli col mondo animale e con la natura. E invece…
E invece questa maledetta epidemia è la stessa cieca decimatrice di sempre, che accentua i nostri difetti e le nostre magagne anziché correggerli. E non c’è un Boccaccio che ci conforti inventando la bella e inverosimile favola della lieta brigata di novellatori (ve l’immaginate che focolaio d’infezioni sarebbe quella convivenza in villa con 10-persone-10 più varia servitù?); ma non c’è nemmeno un Manzoni che viceversa, con la sua cruda e accorata descrizione della peste di Milano (anche allora Milano, guarda un po’), intentava un processo rigoroso e spietato all’Italia di quei tempi e dei suoi, e se castigava finalmente don Rodrigo, faceva però sopravvivere don Abbondio, cioè l’italiano meschino e tornacontista, pavido e cinico di ieri e di oggi, che purtroppo sa sopravvivere a ogni catastrofe.
C’è ancora, quell’italiano, e indossa abiti diversi, dall’untorello strafottente che se ne infischia delle norme e diffonde il contagio con beata incoscienza al politicante marpione che, per racimolare qualche voto in più, farebbe sciamare folle oceaniche in ogni spazio occupabile. Ma c’è l’Italia dei medici e degli infermieri, e dei tanti che sfidano il contagio da impavidi missionari. “Uomini e no”, ancora una volta, come ai tempi di Elio Vittorini.
Non c’è stato, per tornare a Manzoni, l’“assalto ai forni”, se non in sporadici episodi; eppure c’è un popolo di indigenti che l’emergenza ha ingigantito e che non ha più nemmeno la forza di innescare, come potrebbe, una immane esplosione. È la fame, è la miseria, aggravate e come sempre ignorate, ricacciate nel sottosuolo dai privilegiati; è l’universo della povertà, della malattia, dei “dannati della terra” che ci ha inviato le sue prime avanguardie coi barconi dei migranti e guarda torvo ai centri commerciali gremiti, alle case dei ricchi, ai templi consacrati al benessere, allo scialo, allo sfruttamento.
Mi indigna, in questi frangenti, la querimonia di imprenditori, professionisti e boss del commercio che piangono povertà per due soli mesi di chiusura. Non sono certo loro le vittime, anche se è per loro che i governi si muovono con sollecitudine: la tragedia è altrove, è come sempre appannaggio dei veri poveri, del “genere umano dei morti di fame” di cui scrisse Vittorini, che come sempre non ha voce, non ha tribune televisive, non ha al guinzaglio confindustrie che protestino né governi che obbediscano.
Perciò temo che questa catastrofe non ci insegnerà nulla. Uomini e no, domani come oggi come ieri. E ricchi e poveri, oppressori e oppressi. O no? O quell’uomo biancovestito che s’è incamminato in una piazza vuota e buia fino ai piedi del Cristo crocifisso, e ha rivolto al mondo splendide parole di rimprovero e di misericordia, è riuscito a far breccia nelle nostre fiacche coscienze?
Quando le amiche dello “Specchio di carta” mi hanno sollecitato a intervenire, mi trovavo in compagnia di un’ombra. Niente di strano: sto scrivendo un libro sugli aldilà letterari, e perciò con le ombre ho acquisito una certa familiarità: tanto più se si tratta di anime belle e pure come Alexander Langer, di cui appunto stavo leggendo pagine sparse. Come queste, del 1990, in cui immaginava “il passaggio da una civiltà del DI PIÙ ad una del PUÒ BASTARE o del FORSE È GIÀ TROPPO”; e scriveva: “Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza)”.
Lentius, suavius, profundius. Più lentamente, più dolcemente, più in profondità. E non è stata, in piccolo e in privato, l’esperienza di quei giorni di clausura? Eliminare il superfluo, aggrapparsi all’essenziale, vivere del necessario.
Come non essere d’accordo con Giulio Ferroni, su ciò che tutto questo significa nel nostro mestiere di intellettuali, di esegeti, di custodi della memoria? «Riscrivere la storia, riscrivere il nostro rapporto col passato, andare al di là del ribaltamento di tutto sul presente, cercare le forme di conoscenza, di espressione, di storicizzazione, dell’unico umanesimo oggi possibile, possibilmente militante: un umanesimo ambientale»; si tratta insomma «di far giocare la cultura e la storia, la loro continuità, le loro chances residue, per una presa in carico del destino dello spazio che abitiamo, dei luoghi minacciati e delle vite minacciate. Non so se ne saremo capaci, se ci sarà qualcuno capace di farsene carico, di fare nuova storia e nuova letteratura. Oggi come mai credo che ci sia davvero tutto da inventare».
Anni fa, all’ingresso di un dipartimento di letteratura d’una università del nord Europa lessi un avviso che diffidava chi volesse iscriversi dal coltivare emozioni e dal ritenere che lo studio delle lettere e delle arti sia altro che scienza esatta, da praticare tramite tecniche asetticamente neutre.Ecco cos’ha rovinato i nostri studi, ecco perché molti dei nostri dipartimenti s’intitolano alle “scienze umanistiche”. Mentre il percorso delle scienze nel Novecento ha messo in crisi certezze e fondamenti di quelle discipline, e agli scienziati ha aperto gli interminati spazi del possibile, noi umanisti ci cibiamo ancora delle scorie del più vieto positivismo, compilando algidi teoremi secondo i dettami dell’imperante ed esanime trattatistica anglosassone.
Esagero se dico che la hybris scientista di chi si ostina a interpretare i testi come se dissezionasse cadaveri è figlia della stessa arroganza con cui continuiamo a violentare il pianeta? E se dico che lo studioso dovrebbe tornare a rifarsi al modello di Edipo, e cioè del ricercatore il quale, come lo sventurato figlio di Laio che, chiamato a indagare sulla peste a Tebe, scopre di esserne lui colpevole, allo stesso modo revoca in dubbio il suo ruolo e le sue opzioni e si scopre parte tutt’altro che secondaria dell’indagine?
Mettere in gioco il proprio vissuto, quello scrigno di esperienze convinzioni emozioni memorie affetti traumi e illuminazioni che qualcuno chiama anima; scagliare la meravigliosa e irripetibile fragilità di questo fardello nel caos degli splendori e delle miserie del mondo; votarsi all’accordo devoto e compassionevole con le multiformi realtà del creato. E al cospetto d’un autore, d’un pensiero, d’uno stile, anziché frugare da maramaldi in una salma già lungamente abusata, fissare invece le stelle, per cogliere un destino in quell’unico punto di fuga dove il tempo s’incrocia con l’eterno.