(di MARCO BALZANO)
Dopo cinque anni in cui nulla smetteva di correre – il premio Campiello, due bambini, i libri che occupano sempre più spazio – potevo finalmente fermarmi. L’estate scorsa ero davvero felice di mettermi in congedo da scuola per dedicarmi alla scrittura del nuovo romanzo e ai viaggi all’estero per presentare la traduzione di Resto qui. Israele, Stati Uniti, Brasile e, più di tutti, il Cile, che da quando ho letto Neruda è il primo posto dove vorrei andare. Quando ho compilato la domanda ho pensato che in fondo non ho mai fatto altro che andare a scuola. O comunque non ho mai smesso. Ho cominciato a insegnare mentre mi stavo laureando, in un diplomificio di Milano che a fine mese mi dava i soldi nella busta, in nero. Una specie di scuola-scantinato frequentata da ragazzi ricchi completamente abbandonati dai genitori, in cui vigeva un tasso di disagio che andrebbe studiato con la stessa attenzione con cui si studia il malessere delle periferie più estreme.
Da settembre a febbraio ho fatto una vita bellissima: portavo i bambini all’asilo alle otto, bevevo un caffè al bar e mi chiudevo in biblioteca a scrivere il nuovo romanzo. Spesso pranzavo con un amico, a volte, dopo lo studio, andavo a correre. Tornavo a casa insieme ai miei figli, stanco e felice. È proprio la vita in biblioteca che mi dà gioia. In biblioteca studio e scrivo, certo, ma passeggio anche molto. Guardo i libri sugli scaffali, li prendo per poi rimetterli a posto, ficco il naso per decifrare gli appunti che a margine ha preso chissà chi, me li porto al mio posto e li inizio a sfogliare seduta stante dimenticandomi di quello che stavo facendo. È un modo disordinato, lo so, e somiglia problematicamente alla perdita di tempo, ma è il mio unico modo di avere a che fare con lo studio. La biblioteca è come una piazza per me. E mentre fuori le piazze reali, polverizzate da quelle virtuali, si svuotano o spariscono, io mi tengo stretta l’unica che mi è rimasta, dove incontro la gente che capita e dove mi metto a parlare facilmente anche con uno sconosciuto perché comunque un punto in comune so che lo abbiamo: i libri. Magari i suoi sono i fumetti, o soltanto i quotidiani e le riviste, ma c’è di mezzo la parola e la capacità di sedersi ad ascoltarla.
Quando tornavo a casa avevo un sacco di cose da raccontare. Molto più di quando tornavo dalle trasferte per la promozione di un mio libro, dove avevo solamente bisogno di stare in silenzio e di imbambolarmi davanti alla tv. Mia moglie ripete spesso che so raccontare meglio quello che leggo di quello che vivo. Credo che abbia ragione. E sono sicuro che la ragione consiste nel fatto che spesso mi interessa di più quello che trovo in un romanzo, visto che si vive ciò che capita ma, per fortuna, si legge quel che si desidera.
Insomma, sono stati mesi lievi e sereni. Anche viaggiare aveva riacquistato una sua spontaneità, senza più essere quell’atto frenetico durante il quale mi sentivo odiosamente un venditore di parole, un promotore di me stesso. Certe volte ci ho sofferto oltre misura. Rientravo in camera d’albergo e al telefono con qualche amico, o con mia madre, o con Anna, mi veniva voglia di lagnarmi. Anzi, no, confesso la verità: mi veniva voglia di piangere. Invece il viaggio in Germania con Carlo, quello in Olanda con tutta la famiglia, sulle biciclette da una parte all’altra di Amsterdam, sono stati viaggi stupendi, allegri, rigeneranti.
Poi è arrivata la pandemia e ci siamo sigillati in casa. Quella della famiglia chiusa nell’appartamento (una parola che ha la stessa radice di “apartheid”, di “a parte”) è da sempre un’immagine problematica, che cerco sistematicamente di rifuggire. Sono cresciuto coi miei nonni paterni, eravamo undici nipoti in un bilocale di cinquanta metri quadri. La loro porta si chiudeva alle undici di sera e si riapriva alle sei di mattina, come quei piccoli hotel a conduzione familiare che non hanno la reception notturna. Per il resto la porta dei nonni era sempre aperta, non serviva né suonare né bussare. Il nonno e la nonna sono sempre stati il mio ideale di famiglia, una famiglia senza chiavi. Certi giorni la confusione era un po’ tanta, ma la mia infanzia, ne sono sicuro, è stata felice proprio per quella confusione e per quella porta sempre aperta. Si poteva andare e venire cento volte al giorno e ogni volta che la porta si apriva la nonna diceva: “Avanti, c’è posto!”. Io, per quanto possibile, ho cercato di imitarli. Ecco perché rimanere chiuso in casa così a lungo mi ha causato una sofferenza indicibile. Non tanto perché l’agenda si svuotava e i viaggi saltavano, e nemmeno perché dovevo rinunciare alla biblioteca e ai pranzi con gli amici. Più di tutto perché nessuno avrebbe bussato a sorpresa, improvvisando un saluto o un bicchiere. I giorni, è stato subito chiaro, si sarebbero assomigliati come tante uova. E così, implacabilmente, è stato. Nel silenzio si sentivano distinte le sirene delle autoambulanze del Sacco, l’ospedale che c’è qui dietro, lo stesso dove sono nato.
Ho passato le prime due settimane in uno stato catatonico. Scrivere degli articoli per il Corriere su quello che accadeva è stata l’unica attività di scrittura che sono riuscito a portare avanti. Mettere nero su bianco i pensieri: pesarli, ordinarli, analizzarli per non farli implodere dentro di me. In quegli articoli ho sempre scritto più o meno la stessa cosa: ancor prima che un’emergenza sanitaria questa è un’emergenza politica. Di cattiva politica, in tempi difficili, si può persino morire.
Ancora una volta constatavo che ciò che mi stava salvando era scrivere e studiare. A leggere no, non ci riuscivo, perché la lettura per me è l’anticamera della vita e se non posso portare fuori le parole dalle pagine allora non ci provo più gusto, mi sembra un esercizio erudito e niente di più. Se finissi in prigione, tanto per capirci, non credo che riuscirei più a leggere. Se leggo di un fiore, poi devo andarlo a cercare nei campi, se l’autore nomina una bottiglia di vino, io cercherò di berla. Senza possibilità di attuare questo passaggio non leggerei. Mi ha salvato studiare, dicevo, perché richiede una concentrazione e una postura diversa dalla lettura. Mi sono procurato dei libri di storia della Libia e dell’India – paesi di cui non so niente – e mi sono messo a riprendere il greco, col Rocci e la vecchia grammatica del liceo.
Ma quello che più di ogni altra cosa mi ha tenuto in piedi è stato insegnare. Ho fatto scuola a Caterina e Riccardo, che come tutti i bambini hanno perso in un solo giorno amici, maestri e nonni. L’ho fatto seriamente, preparando le lezioni e stampando schede su schede fino a consumare i toner della stampante. Ogni mattina due ore di lezione. Lavori con la creta e disegni per il piccolo e lettura e scrittura per la grande. Non importa come è andata: so che potevo farlo meglio e che dovevo contenere di più la rabbia e l’emozione, smetterla di pensare che dovevo compensare ciò che era stato loro tolto. So anche che sono stato frettoloso perché guardando fuori dalla finestra la strada deserta avevo paura che la natura si stesse riprendendo tutto, che avrebbe forse cancellato gli umani e che tutto senza che me ne accorgessi sarebbe diventato polvere. E poi che i genitori non debbano fare i maestri coi loro figli lo sapevo già. Non importa, dunque, come è andata. Quello che conta è capire una volta di più che a salvarmi sono sempre le stesse cose. Le stesse persone.