(di ALESSANDRA CANZONERI)
Sento sulle spalle tutto il dolore del mondo.
Palazzo Adriano, 24 maggio 2021
Se fosse stata una pagina del mio diario intimo avrei iniziato nel più classico dei modi. Tutte le pagine di tutti i diari che ho scritto fin dall’età di quattordici anni, quando allora presi la prima cotta per un mio amico, iniziano con “Caro diario”. Invece adesso, a ventisette anni, mi ritrovo a scrivere una pagina diversa dal solito. In effetti non è destinata solo a me, non è solo mia, non la rileggerò solitaria nelle prime giornate di pioggia che annunciano l’inverno e il dischiudersi della malinconia. Ma sarò sincera, ci proverò.
Dunque accolgo la proposta della professoressa che ci invita a continuare l’idea del Diario palermitano. Questi sono diari di pandemia. Un tempo c’erano i diari di guerra. Il parallelismo è facile, immediato, forse scontato. Il paragone rischia di essere un po’ azzardato. Questo anno e mezzo di pandemia è stato difficile, è vero, abbiamo combattuto una guerra con un nemico inafferrabile, invisibile ad occhio nudo tanto che all’inizio molti dei miei paesani erano convinti della falsità della notizia e spendevano il loro tempo nei circoli del paese facendo ipotesi tanto assurde quanto fantasiose e ognuno di loro si sentiva di avere ragione e la pretendeva! Ogni cenno di approvazione fomentava i loro discorsi, ogni segno di riprovazione avvampava i loro volti. E’ stata ed è una guerra sì, ma le trincee sono state le soglie delle nostre case. Le parole d’ordine “restiamo a casa” e un illusorio ( per le vittime!) “andrà tutto bene”. I miei, i nostri, spazi vitali si sono ridotti, ma è stato necessario farceli bastare. Le quattro mura della mia stanza si sono fatte schermo di orizzonti desiderati; le quattro mura della mia stanza si sono fatti bastioni dietro cui nascondersi prima di spiccare il volo; le quattro mura della mia stanza sono diventati cunicoli che mi proteggevano dal mondo esterno. Immaginavo di essere una talpa che aspetta il momento più opportuno per risalire in superficie una volta ritiratosi il segugio che abbaiava insistentemente a fermo. La talpa è cieca, ma si fa guidare dall’olfatto e dall’udito. Anche a me è spesso successo di essere cieca, ma mi faccio guidare dalle parole. Quando scrivo diventa tutto più chiaro. La scrittura riesce a chetare il mio animo vorticoso, ma ancora di più è sempre stata in grado di frenare il mio sdegno, la mia frustrazione e il mio malcontento nei confronti della politica, della società, degli eventi. E’ riuscita persino a governare quei momenti opposti di eccessiva fiducia, indirizzando i miei più ingenui entusiasmi a una misura, un ordine, una lucidità che mi ha messo a riparo da eventuali crepacuori. I miei umori altalenanti, il mio prendere a cuore le questioni della mia terra credo dipendano da un desiderio inalienabile di migliorare le cose che non vanno. E nel mio microcosmo siciliano ce ne sono molte. Per esempio mentre scrivo penso alla settimana passata, quella antecedente al 23 maggio. Questa è una data particolare per ogni siciliano.
Quando si pensa alla Sicilia si è sopraffatti da un calore, un senso di godimento, tutti vanno in visibilio! Per un siciliano poi, l’effetto è ancora più dirompente! Perché l’attaccamento è più forte. Il siciliano è la sua isola. Ma quel 23 maggio serve un po’ a farlo ritornare con i piedi per terra, a vedere anche l’altro lato della medaglia.
La Sicilia come «luogo della più vasta e acuta intelligenza umana ma di un’intelligenza che è remora e dolore».
Questa frase di Sciascia riferita alla Sicilia di Brancati mi è rimasta impressa alla fine del corso di Letteratura italiana contemporanea. Ed io quel 23 maggio lo vivo proprio così. Ecco che ancora una volta trovo le risposte nelle parole dei grandi scrittori che sono stati la nostra coscienza critica. Proprio in occasione della strage di Capaci, sono stata coinvolta in un progetto ideato dall’Istituto d’istruzione secondaria superiore Alessandro Volta di Palermo. Il mio ragazzo, che è un docente della scuola, mi ha proposto di scrivere una canzone su Giovanni Falcone per la sua classe. Le sue intenzioni erano quelle giuste. Avrei così scritto una canzone, tre strofe possibilmente con lo stesso numero di sillabe e un ritornello che si sarebbe ripetuto tre volte alla fine di ogni strofa. Ma, presa la penna, le cose sono andate diversamente:
Sento sulle spalle
tutto il dolore del mondo.
Un guizzo improvviso
poi luci in un baleno
boato polvere ceneri.
Resti, amabili,
nessun fiato.
Chi è capace di
interdire una voce
a Capaci
muto di parole?
Ma un sorriso porta un passante
a Porta Felice
un Murales,
e ancora Giovanni e Paolo
ancora sorridono
e poi lo senti di continuare a camminare
te lo sussurra il mare.
A tutta prima non sono riuscita a soddisfare la richiesta. C’erano delle cose per me troppo urgenti che dovevano essere dette. La canzone per i ragazzi l’ho poi scritta e consegnata. Ma è in queste parole che mi ritrovo totalmente. Qui lascio qualcosa di mio, del mio più intimo sentire.