12/05/2023 Federica Zerauto
L’ultima volta in cui sono stata a teatro mi trovavo a Catania. Era l’1 marzo del 2020 e dalla cavea di quello che ormai è un monumento della classicità greco-romana ascoltavo le spiegazioni dell’archeologo che, in quell’occasione, fece da guida al mio gruppo. Di certo non avrei potuto immaginare che di lì a poco tutto ciò che gira intorno al mondo delle maschere si sarebbe fossilizzato. Eppure anche la terra che calpestavo lo presagiva. Un dramma, questo, per me e per quella decina di amici con cui all’epoca “facevo cultura”, organizzando spettacoli teatrali e sessioni di lettura tematica in pubblico. Da quel momento in poi, infatti, rassegnatici al ruolo di spettatori delle vite altrui per cause di forza maggiore, non varcammo più le soglie del capannone dove eravamo soliti dedicarci alle prove, nonché il Teatro Mediterraneo Occupato, né quelle di alcun altro luogo in cui le persone lasciano ai personaggi la libertà di prender la parola e dire “io”.
Superato il terzo anniversario dal mio ultimo ingresso a teatro, ho immediatamente colto l’invito della Professoressa Perrone ad assistere alla rappresentazione in forma scenica di Diceria dell’untore, romanzo scritto da Gesualdo Bufalino e che mi rincorre – nonostante più volte io mi sia persino rifiutata di leggerlo – dagli anni del liceo.
Mi è sembrato paradossale tornare a sedere tra le vermiglie poltroncine di un luogo che amo per ascoltare le parole di un autore difficile, che temevo di non comprendere e con cui ho a lungo rimandato l’incontro e il confronto. Eppure eccomi lì.
Non so chi – se l’autore, rivissuto attraverso il corpo degli attori, essi stessi o ancora la regia di Lia Chiappara – mi abbia sedotto per primo. Ricordo solo di aver vissuto un’ora di incanto, di sospensione tra sogno e realtà, malattia e libertà, passato e presente: vedevo Marta e Lui – il protagonista senza nome, che rivive nel primo attore così come in me, in noi – oscillare quasi fossero acrobati in bilico su una corda sottile che delimita il confine tra la vita e la morte. E raggiunto il livello massimo di tensione, il punto più alto della narrazione, quello dell’ultima “fuga” dall’Ospedale della Rocca dove ebbe inizio la favola triste, è qui che la corda si spezza come la vita stessa di Marta.
Prima di allora, ella aveva preteso che l’antica eleganza e leggerezza di cui trasognata spesso narrava definissero la sua identità, a mo’ di toppe ricucite su una veste ormai sgualcita dai segni del tempo e della malattia; ma adesso ogni colpo di tosse è divenuto segno d’addio. Lui, l’uomo che aveva danzato nell’Ade con la sua Euridice ritrovata, la abbandona per risalire da solo in superficie, spaventato davanti a ciò che lo aspetta: teme l’ignoto, la vita. E davanti a questa nuova prospettiva inaspettata occorre squarciare il tragico epilogo trascritto durante i mesi della sua convalescenza. Non è più necessario un copione: a Lui, ora, tocca “improvvisare le battute di una comparsa” perché è tempo di rituffarsi “nell’aria di fuori”, di familiarizzare ancora una volta (dopo il primo vagito, la guerra, la malattia) con quella “fiumana di folla” che mesi prima, per paura di un contagio, si era scansata al suo passare, al suo trans-ire.
Insomma, uno dei due amanti ha mollato la presa della corda e l’altro è caduto, rigettato all’indietro, nel buio, nell’oblio. Così cala il sipario. Le luci si spengono e, solo quando i personaggi si dileguano, gli attori possono tornare a parlarci. E – aggiungerei – a ri-raccontarsi, come è accaduto il 20 aprile scorso, quando Silvia Scuderi, che ha vestito i panni di Marta, e la regista Lia Chiappara hanno risposto ai quesiti di noi studenti, spettatori e lettori.
In quell’occasione ho posto una domanda in relazione ad una cesura presente a fine spettacolo e che prende avvio nel momento in cui i due protagonisti varcano la soglia della quarta parete e osservano noi spettatori, si interrogano su di noi e, forse, diventano essi stessi dei personaggi consapevoli del loro agire teatrale. Ho pensato che la regista volesse giocare con il concetto drammaturgico del metateatro (come l’autore più volte fa all’interno del romanzo, sia nel momento della messa in scena di uno spettacolo organizzato dal Gran Magro durante il quale avviene il primo incontro tra Marta e il protagonista, sia in quello della visita al teatro dei pupi in cui viene presagita la morte di Marta). E così è stato, mi ha rivelato Lia Chiappara. Ma c’è di più. L’obiettivo non è solo quello di far dialogare i personaggi con noi spettatori, che rappresentiamo la vita “al di fuori” dell’Ospedale, ma è anche quello di marcare con maggiore insistenza una “rottura di piani”, come l’ha definita Silvia Scuderi: ed è proprio in quell’istante della cesura che il protagonista comincia a lasciare andare Marta, ormai agonizzante, e inizia a ricongiungersi con i vivi, a re-immergersi nella banalità del quotidiano; è lì che si libera definitivamente di Marta come estensione personificata della propria malattia e si ricongiunge con noi spettatori “senza-nome” (e “senza-volto”, perché immersi nell’oscurità), proprio come Lui.