(di MARTA ACCARDI)
Dopo L’artista dell’anima. Giotto e il suo mondo, edito da Neri Pozza nel 2022, lo storico dell’arte Alessandro Masi prosegue il personale viaggio alla riscoperta dei grandi maestri dell’arte italiana e con Vita maledetta di Benvenuto Cellini (Neri Pozza, 2023) volge ora lo sguardo al celebre orafo e scultore del Rinascimento.
L’argomento di questo romanzo biografico è subito rivelato dal titolo, ma è attraverso l’impiego dell’aggettivo che l’autore intende solleticare la curiosità del lettore, così da indurlo a voltare pagina per scoprire perché e in che modo la vita di Cellini possa essere definita maledetta.
Il primo capitolo si apre con una descrizione fisica del personaggio Cellini, «capelli arruffati e barba incolta, sguardo da duro e labbro in posa» (p. 7). Qualche riga dopo, vengono fornite alcune notazioni anagrafiche:
[…] era nato in via di santa Chiara […] all’ora quarta della notte del 3 novembre del 1500, quando sul cielo di Toscana culminavano al meridiano ben tre pianeti quasi in congiunzione: Mercurio, Venere e Marte, tutti e tre in Scorpione. Quella congiunzione inferocita non annunciava nulla di buono. (p.7)
È, infatti, nella «congiunzione inferocita» dei pianeti che l’autore rintraccia l’origine di «quel carattere burrascoso e rissoso con cui era costretto a convivere» (p. 29) lo scultore, di cui ancora dice:
violento, attaccabrighe, lascivo, sodomita, scommettitore incallito, ludopatico, gran chiacchierone, spaccone o ciarlatano che fosse, quello Scorpione, occupato da Marte, aveva picchiato proprio duro sulla sua testa marchiando il suo destino. (p. 8)
Dalla lettura di questi brevissimi passi risulta evidente come l’autore faccia degli aggettivi e del loro impiego, a partire dal titolo e proseguendo per tutto il testo, la propria cifra stilistica per consegnare al lettore un personale commento della vita dell’eccentrico artista del ’500. Molte delle vicende che leggiamo erano già state raccontate dallo stesso scultore nell’autobiografia intitolata Vita di Benvenuto Cellini Fiorentino scritta (per lui medesimo) in Firenze, ed è proprio con quest’opera che Alessandro Masi è inevitabilmente chiamato a confrontarsi. Il legame con quello che possiamo definire l’antecedente letterario è dichiarato dallo scrittore, ad esempio, quando ve ne trae le numerose citazioni o quando, dopo una digressione su Alessandro de’ Medici detto il Moro, riprende le fila del discorso dicendo «ritorniamo di nuovo a Benvenuto e al suo racconto» (p. 148). Ma è nell’ultimo capitolo intitolato Epilogo che esso viene esibito:
Fu così, caro lettore, che realmente andarono le cose di quella straordinaria e scellerata vita che Benvenuto Cellini ha scritto, e che qui si è raccontata, infino all’anno del Signore 1567, termine ultimo della correzione e della stesura delle sue memorie. (p. 235)
Ancora due aggettivi riferiti a vita: straordinaria e scellerata. Attraverso questi, Alessandro Masi sottopone all’attenzione del lettore le due qualità, secondo lui, più rappresentative della vita di Cellini: una dà ad intendere che si tratta di qualcosa che è fuori dall’ordinario al punto da suscitare meraviglia o stupore, e l’altra suggerisce che è una vita irta di ostacoli e violenze. Bisogna soffermarsi, però, anche sull’avverbio che compare poco prima di questi aggettivi: realmente. Non è casuale la scelta di questo avverbio, posto in apertura dell’ultimo capitolo del libro, che è anche l’unico a non aver un titolo e una rubrica che riassumano e anticipino il contenuto del capitolo stesso, come avviene nei precedenti trentatré (Nato nel segno dello Scorpione, Il sacco di Roma, Quando il povero dona al ricco il diavolo se ne ride, per fare degli esempi). Evidentemente si tratta di un capitolo in cui, oltre ad informarci sugli ultimi anni della vita di Cellini, l’autore sente la necessità di ritagliarsiun piccolo spazio per congedarsi dal lettore, cui si rivolge confessandogli (e a sottolinearlo ricorre non a caso all’avverbio realmente) chequellache ha appena finito di raccontare è, sì, la vita di Cellini, ma non quella ‘scritta’dallo scultore.
Bisogna precisare, però, che Alessandro Masi non ha letto con occhio ingenuo la Vita, tant’è vero che, nel terzo capitolo, ci avverte: «naturalmente la verità raccontata da Benvenuto come sempre è una mezza verità, se non una bugia» (p. 21). Il nostro scrittore è dunque consapevole di misurarsi con una narrazione che non corrisponde del tutto al vero storico. E non potrebbe essere altrimenti, in effetti, dal momento che si tratta di un’autobiografia ovvero di un genere che, secondo la definizione di Philippe Lejeune, è un «racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità»[1].
Il Cellini biografo di sé stesso vuole, infatti, raccontare la propria vita ma vuole soprattutto esaltare le proprie «’mprese», come si legge nel sonetto proemiale della sua opera:
Questa mia Vita travagliata io scrivo
per ringraziare lo Dio della natura
che mi diè l’alma e poi ne ha ’uto cura,
alte diverse ’mprese ho fatte e vivo. […]
E poco dopo questi versi, egli precisa anche che:
Tutti gli uomini d’ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, o sì veramente che le virtù somigli, doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor propia mano descrivere la loro vita; ma non si dovrebbe cominciare una tal bella impresa prima che passato l’età de’ quarant’anni.
A conferma di ciò il fiorentino – dopo avere affermato di aver cominciato a scrivere di proprio pugno, «come si può vedere in certe carte rappiccate», e di aver poi proseguito la stesura dettando ad un fanciullino di tredici anni di nome Michele – aggiunge anche di aver cominciato la «bella impresa» all’età di cinquantotto anni. Ed è in questa affermazione che rintracciamo la visione retrospettiva del racconto autobiografico di cui ci parla Lejeune. Proponendosi di raccontare dal proprio punto di vista le «diverse ’mprese» compiute, a suo dire, con rettitudine, Cellini esclude categoricamente dalla narrazione le «cose che s’appartengono a quelli che scrivono le cronache», perché l’unico obiettivo è: «descrivere questa mia vita che io ho cominciato, e le cose che in essa a punto si appartengono». Inoltre, lo scultore è disposto anche a tralasciare alcuni particolari, perché – dice – «voglio riserbare queste parole a parlare de l’arte mia, quale è quella che m’ha mosso a questo tale iscrivere».
Considerata la postura del Cellini autore e narratore della propria Vita, che si dichiara pronto a tralasciare tutti quegli episodi poco edificanti per il proprio personaggio, l’operazione letteraria portata avanti da Alessandro Masi si rivela ancora di più pregevole, da diversi punti di vista.
Si è detto dell’impiego reiterato di aggettivi e avverbi, che connota senza dubbio il suo incedere scrittorio, ma bisogna riconoscere anche la sua capacità di prendere le distanze dal testo autobiografico, mettendone in risalto i punti deboli, come quando in maniera lapidaria ed ironica dice che lo scultore «sorvola furbescamente» (p. 56) sulla rievocazione di una rissa mancata. Tale presa di distanza viene talvolta avvalorata anche dall’uso di parole inequivocabilmente moderne come «psicodramma» (p. 38) o «psicopatico pipistrello» (p. 181).
Guardando invece all’impianto narrativo, occorre segnalare quella che si potrebbe definire un’integrazione del testo rinascimentale, operata dallo studioso Masi per mezzo dell’inserzione di diverse digressioni storiche. Emblematico è, ad esempio, l’excursus sulla figura di Papa Clemente VII, protagonista di molti eventi cruciali del primo Cinquecento:
Con la scomparsa di Clemente VII, l’ultimo uomo illustre della dinastia de’ Medici, si chiudeva definitivamente un’epoca grandiosa, fatta di luci e di ombre, ma senz’altro irripetibile per quella vitalità sprigionata dall’umanesimo fiorentino trapiantato al centro della cristianità mondiale. (pp. 139-140)
Queste poche righe valgono quasi da introduzione ad un ritratto essenziale del grande Papa che, ricorda l’autore:
aveva dovuto affrontare uno dei periodi più tormentati della storia di Santa Romana Chiesa con il doloroso scisma di Lutero, quello anglicano voluto da Enrico VIII, la combattuta successione imperiale e, non ultima, la minaccia di espansionismo nel Mezzogiorno dei turchi. […]
Fu […] la sua ambiguità politica a giocargli il fatale scherzo imperiale del Sacco del 1527 con il quale si consumò una delle pagine più dolorose e tragiche della storia di Roma. (pp. 140-141)
Clemente VII viene ritratto come un Papa ambiguo, abile in politica e grande intenditore di economia, un uomo «cocciuto» (p. 124) quanto Cellini ma che sa essere all’occasione misericordioso, per non dire furbo. L’affondo su Clemente VII è arricchito inoltre da alcuni versi di Francesco Berni accortamente selezionati dall’autore, che si propone in questo modo di dare misura al lettore del «controverso carattere» (p. 141) del Papa in un difficile momento per Roma:
Un papato composto di rispetti,
di considerazioni e di discorsi,
di più, di poi, di ma, di sì, di forsi,
di pur, di assai parole senza effetti. (p. 141)
Questi ed altri versi tratti da una pasquinata – ovvero una breve satira che un autore anonimo affiggeva in pubblica piazza per criticare aspramente i papi e la curia – rivelano oltre alla conoscenza della letteratura cinquecentesca, anche la capacità di combinare prosa e versi. Già nell’autobiografia del ’500 era possibile leggere frequenti incursioni poetiche ad opera dello stesso scultore, come nel caso dei versi scritti sul muro di una cella durante un periodo di prigionia:
– Afflitti spirti miei,
oimè crudeli, che vi rincresce vita!
– Se contra il Ciel tu sei,
chi fia per noi? Chi ne porgerà aita?
Lassa, lassaci andare a miglior vita.
– Deh non partite ancora,
che più felici e lieti
promette il Ciel, che voi fusse già mai.
– Noi resterèn qualche ora,
purché del magno Idio concesso sieti
grazia, che non si torni a maggior guai. (p.181)
Protagonisti di questo sonetto sono gli spiriti «dello intelletto» e il suo corpo, che il fiorentino pone in dialogo tra loro, immaginando i primi (gli spiriti) stanchi di stare al mondo per le infinite disgrazie e l’altro (il corpo) che nutre ancora la speranza che possa accadere qualcosa di buono e risolutivo. Riconoscendone il valore espressivo, l’autore non manca di recuperarli, confermandosi in questo modo sia un sapiente affabulatore, capace di impreziosire la narrazione con voci poetiche – tra le quali bisogna ricordare anche quella di Benedetto Varchi con il sonetto In la creduta e non vera morte di Benvenuto Cellini (p. 156) – sia un lettore scrupoloso dell’opera celliniana. Il dialogo intertestuale tra la Vita maledetta e l’autobiografia del Cellini, come si può notare, emerge costantemente nel libro di Masi e dà la misura della sua scrittura, perché proprio a partire dal confronto con l’antecedente letterario l’autore ricava quella presa di distanza di cui si è detto e che contraddistingue in maniera singolare il suo romanzo biografico.
[1] Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 12.