Mag 22

“La terra del grano nero” di Ruggero D’Alessandro. Un viaggio e una missione dagli esiti inattesi

(di ELEONORA CHIAVETTA)

La terra del grano nero (Castelvecchi, Roma, 2023) è il titolo dell’ultimo romanzo pubblicato dal sociologo e politologo Ruggero D’Alessandro che affronta una vicenda agghiacciante e ancora dolorosa riguardante i rapporti tra l’Unione Sovietica e l’Ucraina dopo la rivoluzione bolscevica, rimasta a lungo argomento tabù anche all’interno della stessa Ucraina.

            Siamo, infatti, a Mosca nel 1934 alla fine di marzo; è quasi primavera e siamo in periodo staliniano. Il protagonista è un giovane ufficiale di 34 anni, il maggiore Michail Ivanovic Salomov. Michail viene dalla campagna anche se l’ha ripudiata a favore di una rapida carriera militare. È un giovane di bell’aspetto, atletico, elegante con una «certa aria di distacco, a volte di strafottenza» (p. 6) che è stato convocato per una missione alla sede moscovita dell’OGPU, la polizia sovietica di sicurezza interna, che si potrebbe paragonare alla Gestapo. È la prima volta che Salomov viene interpellato e non ha la minima idea del perché sia stato convocato.

Il romanzo inizia, quindi, con il colloquio tra Salomov e il colonnello Dzjukov, responsabile della sezione Affari Interni 1/A, durante il quale il maggiore apprenderà che deve recarsi in missione in Ucraina per fare luce sulla scomparsa di un ufficiale precedentemente inviato dall’OGPU in quelle terre. La narrazione acquista così una sfumatura di romanzo giallo, un genere che D’Alessandro ha già abbracciato nel romanzo di detection, Il cerchio di ghiaccio, anche se La terra del grano nero va al di là degli obiettivi tipici del genere giallo.

 Durante il dialogo con il suo superiore Salomov sembra mettere in atto il comportamento che ci si aspetta da lui. D’Alessandro infatti dice poco prima che:

In quegli anni durissimi, soprattutto per chi occupava posizioni di rilievo nel PCUS, Armata Rossa, OGPU, diplomazia, uffici economici e statistici si rendevano indispensabili tre abilità: scegliere lo schieramento giusto; restarvi fedele in modo cieco, ostinato, ottuso; non emergere, mantenendo un profilo modesto, indistinguibile dalla massa obbediente ai capi bestiame.

Se il legame tra queste tre risorse si dimostrava solido, il soggetto sarebbe comunque riuscito a “cadere in piedi” anche nel caso avesse scelto la frazione sbagliata o l’appoggio di un dirigente in declino, proseguendo senza eccessivi scossoni una carriera tranquilla, seppur non clamorosa […] (p. 6).

Il dialogo tra i due evidenzia perfettamente sia il carattere dei personaggi sia il fatto che entrambi debbano camminare sulle uova senza fracassarle. Nel dialogo, inoltre, vengono introdotti due termini basilari nella vicenda narrata, ovvero il termine “Kulaki” e il termine “Holodomor”.

“Kulaki” in russo vuol dire “pugno” ma anche “avaro” ed è il nome con cui, nella Russia zarista e nei primi anni della Russia sovietica, venivano designati i contadini benestanti, proprietari di una certa estensione di terra, che coltivavano con i propri familiari o, a volte, con altri contadini alle loro dipendenze. La riforma agraria del 1906 era stata concepita con l’intento di formare una borghesia terriera di kulaki che servisse da base per la modernizzazione dell’agricoltura. Questa libertà economica venne confermata dopo la Rivoluzione d’ottobre anche dalla Nuova Politica Economica (1921) voluta da Lenin, ma la fine della NEP determinò un cambiamento nella situazione e con la crisi agricola del 1927 Stalindecise di ripristinare il sistema delle requisizioni delle eccedenze, iniziando una lotta determinata verso chi vi si opponeva e i kulaki in particolare. Il suo obiettivo era quello di eliminare i kulaki come classe sociale e di incrementare la collettivizzazione agraria. Alcuni dei kulaki accettarono di entrare nelle fattorie collettive (colchos) o statali (sovchoz), alcuni vendettero le proprietà; altri, invece, si opposero alla politica stalinista, arrivando anche a macellare il proprio bestiame. La repressione fu durissima: arresti e deportazioni colpirono tutti i contadini che si rifiutavano di adempiere alle richieste dello stato.

È Salomov a parlare dei kulaki nel colloquio con il colonello Dzjukov. Quando questi gli domanda se sia al corrente di cosa stia accadendo in Ucraina: «Se si riferisce alla campagna contro i kulaki, ne so quanto ne scrivono le varie “Pravda” o “Izvestija”, compagno colonnello», risponde in modo diplomatico e quando il suo interlocutore insiste chiedendogli cosa ne pensi lui, Salomov dà l’unica risposta che può dare senza esporsi troppo, ovvero che «lo ha deciso il compagno segretario generale. Mi basta» (p. 8). Queste sue risposte convinceranno il colonnello di avere fatto la scelta giusta nel decidere di inviare proprio lui in missione.

Il termine ucraino “Holodomor” viene invece introdotto sottovoce dallo stesso colonnello che spiega a Salomov come la parola derivi dall’unione «di fame e uccidere di stenti, ovvero holod e moryty. Significa “infliggere la morte tramite la fame”». Il suo punto di vista è che l’invenzione di questo termine, per descrivere quanto sta accadendo in Ucraina sia un affare politico, un vero e proprio «attacco diretto al Cremlino» (p. 11). Salomov è in sintonia con il suo superiore e anzi ritiene che la diffusione di questa parola e di quanto essa rappresenta possa minare il progetto politico di Stalin, diffondendo notizie false.

Il neologismo “Holodomor”, fino a pochi anni fa pronunziato a bassa voce o addirittura cancellato, si riferisce alla terribile carestia forzata decretata e portata avanti da Stalin nei confronti del popolo ucraino, che causò milioni di morti, non soltanto in Ucraina ma anche nel Caucaso e nel Kazakistan.

            Andando in Ucraina per risolvere il mistero dell’ufficiale scomparso, Salomov scoprirà che l’holodomor non è una falsa notizia inventata per screditare il partito, ma una tragica, orrenda realtà.

Il romanzo accompagna il maggiore nel suo viaggio all’interno di quello che viene definito «inferno ucraino» (p. 33) o anche «avamposto d’inferno» (p. 35). È un viaggio che lentamente porterà Salomov e chi lo accompagna a rivedere le sue convinzioni ideologiche e a mutare di conseguenza.

Fin dall’inizio Salomov si rivela uno spirito osservatore e acuto, con dei pensieri che possono essere rischiosi se espressi ad alta voce. Nella stazione di Mosca da cui sta per partire, ad esempio, osserva con ironia lo spiegamento militare («Quei dispiegamenti di manichini armati fino ai denti erano una suprema confessione di debolezza», p. 20), mentre di Stalin pensa che è «il primo czar non dinastico di tutte le Russie» (p. 23). Dimostra uno spirito critico, come quando riflette sul passaggio nel 1924 «dall’ometto con gli occhi mongoli [Lenin] all’ometto con i baffoni spioventi di genocidi [Stalin]» (p. 28). In quest’ultima citazione si nota come D’Alessandro introduca la parola “genocidio”, il termine con cui nel 2008 la carestia del 1932-33 è stata definita dal parlamento ucraino e da altri stati, evidenziando così il presupposto da cui è scaturita la sua narrazione.

I cambiamenti di Salomov sono lenti e continui. Va detto, per esempio, che all’inizio del romanzo considera i kulaki nemici secondo l’ideologia dominante:

[…] odiati kulaki, i contadini proprietari. Non sapeva bene chi fossero, ma conosceva cosa rimproverava loro il Partito: di essere traditori della causa socialista, sporchi arricchiti, di parteggiare per gli interessi dei benestanti e sfruttare i contadini veri, quelli poveri […]. (p. 16)

Tuttavia, poiché il giovane non è ottuso, nutre anche il sospetto che essi siano «il nuovo nemico di comodo di Stalin» (p. 17). Questo sospetto nel corso delle sue indagini e della scoperta di quanto sta accadendo in Ucraina verrà confermato e rafforzato, determinando atteggiamenti ben diversi da quelli che Dzjukov aveva immaginato. Inoltre, nel suo viaggio in terra ucraina Salomov ritornerà con la mente alle proprie origini contadine e si porrà dei dubbi su se stesso e sulla sua capacità di comprendere quanto sta effettivamente accadendo:

[…] Si chiese all’improvviso se uno come lui, ben pasciuto, privilegiato, ufficiale in carriera sarebbe stato in grado di cogliere l’essenza della tragedia di quel mondo contadino. Cosa poteva avere in comune uno come lui con chi voleva lavorare la terra e se la ritrovava contro, inaridita, nemica. C’era chi subiva sequestri, ipocritamente chiamati requisizioni, perfino di un pugno di lenticchie mezze marce. Chi si vestiva di stracci e a stento poteva nutrire ogni due giorni moglie e figli […] (p. 53).

Sempre più si identificherà con quella gente di cui anche lui in Russia ha fatto parte:

[…] A volte quei visi, rugosi, cotti dal sole, consumati dal ritmo delle stagioni si fondevano con i visi dei genitori di Salomov, dei parenti di villaggi vicini, di altri lavoratori della terra. Quel sovrapporsi di occhi acquosi e sguardi distaccati, guance scavate e mani callose gli ricordava come si era schierato: contro quelle persone che potevano essergli parenti […] (p. 53).

L’atmosfera del romanzo è cupa, pesante, impregnata di incertezza e di paura. Le strade di Mosca guardate dal finestrino di un tram parlano di «donne avvolte in squallidi scialli ridotti a esili paraventi, del tutto inadatti a riparare dalle folate sotto i dieci gradi. Uomini che si affrettavano a comprare o vendere qualcosa di misero […]» (p.18). Ancora più cupa è l’atmosfera che si respira in Ucraina e, già all’arrivo, Salomov è in grado di misurare «la sofferenza di quella terra a sud di Kiev» (p. 31). Il suo sguardo coglie immediatamente l’abbandono, lo squallore e l’afflizione:

[…] Dal finestrino sporco di neve vedeva la secchezza delle zolle, la desolazione dei campi, l’assenza totale di macchinari agricoli e carri e carretti trascinati da animali da soma. Di contadini a lavorare, ragazzi a dare una mano, cani a girare per i terreni rivoltati nemmeno l’ombra. Anche nell’inverno più freddo, negli anni trascorsi si riusciva a cavare qualcosa dalla terra russa, ucraina, bielorussa; per non parlare di quella di Crimea o ancora più a sud. L’Ucraina, che avevano davanti agli occhi, raccontava una storia di silenzio e fame, di natura offesa. Tutto veniva violato dalla cieca ideologia dello Stato socialista sovietico […] (p. 31).

È la descrizione di una terra martoriata non soltanto per il paesaggio sterile, “cadaverico”, ma anche per i comportamenti degli esseri umani che Salomov vede lontani da una sorta di normalità perché vittime di una terra «grondante sangue, ghiaccio, rabbia, zolle inaridite» (p. 33). Siamo di fronte a un paesaggio surreale e altrettanto surreale e drammatico è il rapporto tra Salomov e gli abitanti durante la sua missione.

Nella sua indagine Salomov viene affiancato da una donna, il tenente Ljudmila Ivanova Gromov. Bella, ma rigida, dagli occhi di ghiaccio, chiusa nel suo linguaggio burocratico, lei non ha dubbi sull’operato di Stalin.

Il viaggio cambierà entrambi per sempre e li cambierà perché li metterà di fronte alla realtà nascosta della situazione in Ucraina e a quello che la politica stalinista sta portando avanti nella sua brutale decisione di sopprimere la popolazione affamandola. Se all’inizio tra i due non c’è possibilità di dialogo perché la politica terroristica del partito impone di non esprimere il proprio pensiero, ma anche per le loro diversità, a poco a poco i due ritroveranno la possibilità di potersi esprimere senza timore e di condividere le scelte che faranno, sia rispetto alla scomparsa dell’ufficiale sia rispetto a una ragazzina, Olena, che riescono a salvare dalla morte.

 Lungo il viaggio i due militari incontreranno vari personaggi, che non possiamo definire minori, perché hanno la funzione di smascherare il tiranno e il suo gioco. Sono aiutanti nel percorso di crescita dei protagonisti, del loro sviluppo emotivo, razionale, ideologico e, infine, anche sentimentale. Il cambiamento dei personaggi è lento e progressivo, ma definitivo.

Gli incontri accadono fin dal lungo tragitto in treno. Salomov si dimostra curioso, aperto, interessato al pensiero e alla vita di chi incontra e questo suo atteggiamento, diverso da quello che ci si aspetterebbe da un militare mandato in missione dall’OGPU, fa sì che anche gli altri si aprano. È questo il caso del capotreno che ha partecipato alla rivoluzione di ottobre, ma è deluso dagli sviluppi della rivoluzione

I cambiamenti di Salomov saranno sempre più evidenti e sempre più in contrasto con i comandamenti di cui abbiamo parlato all’inizio. Il suo comportamento indurrà anche Gromov a rivedere le proprie convinzioni e a mutare atteggiamento. Quando il maggiore rimprovererà i poliziotti che sparano per colpire una ragazzina colpevole di avere rubato una rapa, lei rimane stupita per l’inspiegabile generosità che l’uomo dimostra nel difendere la piccola ladra:

[…] Gromov sapeva bene dentro di sé di poter disapprovare duramente il gesto di quell’adolescente. Era stata istruita assai bene anche dal profilo etico e psicologico. Il concetto di Bene e quello Male erano scolpiti nella sua mente […]. Eppure, non poté impedirsi di notare la passione che il suo superiore metteva nel difendere quell’adolescente. E ancor più nel curarsi di un aspetto che in quei tempi spietati era ormai polveroso antiquariato: curarsi di un altro essere umano, della sua sorte messa a dura prova […] (p. 49).

Anche nel condurre gli interrogatori per scoprire cosa sia accaduto all’ufficiale scomparso – motivo della sua missione – Salomov, che ha in orrore la tortura, blocca la mano che si abbatte con violenza sulla donna interrogata. E il suo gesto scatena altre perplessità in Gromov:

[…] Ancora il conflitto nel cuore e nella mente di Ljudmila Ivanova fra l’obbedienza ai valori del socialismo sovietico e la semplicità di una vita umana minacciata di violenza. Se fino alla partenza da Mosca la scelta era del tutto istintiva, adesso, in quella terra di sofferenza, fame, dolore non lo era più […] (p. 55).

Determinanti nell’evoluzione dei personaggi e della storia saranno gli incontri con i ribelli ucraini. Saranno loro a spiegare nei dettagli e con precisione, con linguaggio crudo e diretto, l’atroce morte per fame imposta dal potere stalinista:

[…] Dall’autunno del 1932 il principio da seguire per polizia, inquirenti, esercito, partito è il seguente: chi non muore di fame è sospetto. Si è sentito chiedere dai poliziotti ai contadini come potessero essere ancora vivi. Capite? Solo se hai consegnato al governo di Mosca ogni bene commestibile sei un vero comunista e cittadino sovietico. Se mangi non lo sei; quindi sei colpevole …se gli agenti non possono sequestrare il cibo, allora lo rovinano. Il grando lo si lascia andare a male facendolo diventare nero…appena germogliato viene gettato a tonnellate nei burroni. Il fenolo viene usato per rendere tossico il pesce; i contadini spesso lo mangiano egualmente, morendo poco dopo. […] Grandi quantità di barbabietole vengono lasciate intatte accanto ai cadaveri insepolti e i fucilati per furto: un crudo invito a non rubare. Una ragazzina è stata fucilata sul posto per aver rubato poche patate. […] Capite che l’intero proletariato contadino si trova stretto in una tenaglia mortale? Consegnare il cibo e morire di fame; oppure mangiarlo e per questo essere fucilati […] (pp. 78-79).

Salomov e Gromov crederanno al racconto di questi uomini che combattono per la sopravvivenza e agiranno di conseguenza.

Questo romanzo che si basa su una approfondita analisi storica e sociologica, documentata con accuratezza di studioso, è, dunque, un libro di denunzia, che vuole fare conoscere fatti storici accaduti tra il 1932 e il 1933, che causarono sette milioni di morti e che sono stati silenziati, censurati per troppo tempo e di cui oggi si parla, ancora incerti se usare il termine genocidio decretato dal Parlamento ucraino nel 2008 o considerarlo un crimine contro l’umanità come ha stabilito il Parlamento Europeo. L’autore, come già detto, ha una posizione politica molto esplicita nei confronti di questa carestia artificiale, strumento non soltanto per eliminare l’opposizione dei contadini, ma anche per sopprimere i pericoli che l’Ucraina poteva rappresentare per le decisioni politiche e ideologiche dell’epoca.

Tuttavia, considero il romanzo anche un libro all’insegna della speranza nella capacità degli esseri umani di reagire contro gli orrori che la mente crudele e malata dei dittatori porta avanti e a cui si può contrapporre la capacità di superare la paura, di trovare soluzioni “umane” che si oppongano a quelle “inumane”.  Ho letto nel romanzo il suggerimento che ognuno nel suo piccolo può operare e cambiare la storia. Basta ascoltare, osservare, ragionare senza gli imbonimenti, senza essere ciechi e ottusi, e poi agire secondo la propria coscienza. Naturalmente le scelte difficili e in contrapposizione all’ideologia totalitaria dominante e imposta con la violenza hanno un costo che spesso si pagano, come accade ai due protagonisti.

Due ultime osservazioni. Della carestia in Ucraina parla George Orwell nel capitolo VII della Fattoria degli animali dove Napoleon, il maiale a capo della fattoria, altro non è che immagine metaforica di Stalin, mentre le galline e gli altri animali costretti a cedere quanto producono e a morire di fame rappresentano i kulaki. Orwell aveva sicuramente letto gli articoli del giornalista gallese Gareth Jones, che nella primavera del ’33 si era recato in Ucraina e aveva denunziato nei suoi articoli quanto aveva visto con i propri occhi, ed era stato anche lui smentito e censurato e poi liquidato. Così, usando la metafora delle galline e delle pecore, Orwell raccontò nel suo libro subito dopo la seconda guerra mondiale quello che l’occidente si era rifiutato di vedere.

La storia raccontata da D’Alessandro ha a che fare con Russia e Ucraina, ma ritengo che la vicenda possa farci riflettere su tanti altri genocidi più o meno riconosciuti come tali e spesso silenziati: ciò che rende il romanzo così coinvolgente è vedere come gli esseri umani possano comportarsi in situazioni di estrema violenza e crudeltà, in nome di ideologie di potere, nei cui confronti si possono assumere atteggiamenti diversi, dalla cieca obbedienza verso i capi, all’indifferenza egoista e comoda, o al cercare di fare prevalere la consapevolezza dei diritti insopprimibili e inalienabili degli esseri umani e fare qualcosa perché questi diritti abbiano ancora possibilità di esistere. 

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