Uno degli anni in cui noi uomini oggi si era ragazzi o bambini, sul tardi d’un pomeriggio di marzo, vi fu in Sicilia un pastore che entrò col figlio e una cinquantina di pecore, più un cane e un asino, nel territorio della città di Scicli.
Questa sorge all’incrocio di tre valloni, con case da ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo del letto di una fiumara, e antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini. […] Chi vi arriva dall’interno se la trova d’un tratto ai piedi, festosa di tetti ammucchiati, di gazze ladre e scampanii; mentre chi vi arriva venendo dal non lontano litorale la scorge che si annida con diecimila finestre nere in seno a tutta l’altezza della montagna, tra fili serpeggianti di fumo e qua e là nel bagliore d’un vetro aperto o chiuso, di colpo, contro il sole.
(E. Vittorini, Le città del mondo, Milano 1974).
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È la più bella città che abbiamo mai vista. Più di Piazza Armerina. Più di Caltagirone. Più di Ragusa, e più di Nicosia, e più di Enna…Forse è la più bella di tutte le città del mondo. E la gente è contenta nelle città che sono belle.
(E. Vittorini, Le città del mondo, Milano 1974).
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‹‹Insieme gli si era aperta dinanzi la città di Scicli, con le corone di santuari sulle teste di tre valloni, con le rampe dei tetti e delle gradinate lungo i fianchi delle alture, e con un gran nero di folla che brulicava entro un polverone di sole giù nel fondo della sua piazza da cui parte e s’allarga verso occidente un ventaglio di pianura. […] “Ma che cos’è?” domandò. “È Gerusalemme?” […] “Forse è la più bella di tutte le città del mondo”››.
(Elio Vittorini, Le città del mondo, in Le opere narrative, vol. II, pp. 375-379).
